Le mamme li odiano, i ragazzi li amano, e gli insegnanti per ora sembrano ancora indecisi. Una mole crescente di ricerche sembra infatti indicare che i videogiochi aiutino l’apprendimento e lo sviluppo di abilità specifiche abilità cognitive come memoria e ragionamento. Per questo motivo, in molte nazioni i videogiochi sono entrati ormai da anni nell’insegnamento scolastico, e c’è addirittura chi vorrebbe una revisione della didattica interamente basata su giochi e videogames. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Policy Insights from the Behavioral and Brain Sciences smentisce però l’utilità di questa rivoluzione: solamente un ristretto gruppo di giochi infatti si dimostrerebbe utile per lo sviluppo delle capacità cognitive dei giovani, e questi benefici non si traducono necessariamente in un migliore apprendimento a livello scolastico. Un utilizzo mirato, che punta a raggiungere precisi obbiettivi di apprendimento, può comunque trasformare i videogiochi in un importante strumento didattico.
“Questa ricerca dimostra che i dati disponibili non supportano l’idea che l’utilizzo di videogiochi si traduca in un miglioramento generalizzato delle capacità cognitive”, scrive l’autore della ricerca, Richard E. Mayer, della University of California di Los Angeles. “Non si può quindi affermare che giocare ai videogames migliori la nostra mente in generale”.
Stando alle ricerche di Mayer, solo un ristretto gruppo di giochi “commerciali” migliorano realmente abilità cognitive come il ragionamento e la memoria: i cosiddetti “sparatutto”, e i puzzle game come il celebre Tetris. Studiando questi giochi, Mayer ha individuato una serie di caratteristiche che possono rendere un videogame un utile strumento didattico, come l’utilizzo di parole in stile colloquiale piuttosto che stile formale, e l’aggiunta di istruzioni, consigli e chiarimenti per spiegare i punti chiave del gioco.
Se per Mayer è dunque prematura l’idea di una rivoluzione della didattica tradizionale basata sull’utilizzo dei videogiochi, esistono comunque degli ambiti in cui possono trovare spazio nell’insegnamento. In particolare, le ricerche svolte fino ad ora dimostrerebbero che quando si insegnano materie scientifiche, il gioco può essere uno strumento didattico più efficace dei libri e diapositive tradizionali.
“Si impara sicuramente di più guidando in prima persona una meiosi cellulare, che a leggerne su un libro”, ci ha spiegato Paolo Ferri, ordinario di Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie per la didattica all’Università di Milano-Bicocca. “Tutto ciò che può essere simulato digitalmente aiuta ad apprendere di più. In tutto il Nord Europa l’educazione tradizionale è stata rimpiazzata dal “fare”, ovvero da un’educazione che non si basa solo su nozioni, ma che promuove l’apprendimento con l’esperienza, con simulazioni interattive e laboratori virtuali. I sistemi educativi quindi tendono a convergere verso la tecnologia e i videogiochi in realtà sono importanti perché sono una modalità del “fare” e, con la loro forma ludica, costituiscono delle simulazioni di realtà nelle quali i bambini si trovano già da quando hanno due anni di età.
“Il discorso è ben diverso per l’Italia”, sottolinea però Ferri. “Se togliamo alcune realtà molto avanzate che abbiamo anche nel nostro Paese, nel resto delle scuole italiane il multimedia learning e tutte queste forme di apprendimento multimediale non sono note né tanto meno utilizzate. Basti pensare che solo il 10% delle classi ha un collegamento a internet”.
Credits immagine: Coba