Con inquinamento e riscaldamento globale aumentano polpi e calamari

(foto: David Wiltshire)
(foto: David Wiltshire)
(foto: David Wiltshire)

Dalle foreste alle pianure, dai monti ai mari, non c’è ecosistema l’effetto della nostra specie oggi non si faccia sentire. Un’influenza dovuta all’inquinamento, al riscaldamento globale e all’incessante attività umana, che mette a rischio moltissime forme di vita, ma produce anche nuovi vincitori nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. E guardando ai mari, un gruppo di invertebrati sembra particolarmente favorito dall’attuale situazione: i cefalopodi, cioè polpi, calamari, seppie, e simili. A dimostrarlo è uno studio pubblicato sulla rivista Cell, che svela come le popolazioni di cefalopodi siano in aumento da decenni, in tutti i principali oceani del pianeta.

Per scoprirlo, i ricercatori dell’università di Adelaide hanno analizzato i dati disponibili sulla quantità di cefalopodi pescati nel mondo, scoprendo che la cifra è aumentata notevolmente negli ultimi tre decenni. Non si tratta però di dati particolarmente affidabili, perché possono essere influenzati da errori nella raccolta, dalla quantità di tempo speso in mare dalle flotte di pescherecci in un particolare anno, e da avanzamenti e mutamenti nelle tecniche di pesca.

Per questo i ricercatori hanno deciso di analizzare un secondo parametro, più difficile però da misurare: la quantità di cefalopodi pescata, o monitorata, in ogni nazione durante una specifica finestra temporale. Per ottenerli i ricercatori hanno trascorso mesi spulciando la letteratura scientifica disponibile, contattando colleghi di altre nazioni per ottenere le banche dati sulla pesca di specifiche nazioni, e per tradurre tutto in inglese. Al termine della ricerca comunque sono riusciti a ottenere un set di dati affidabile, che copre un periodo temporale di circa 60 anni.

E il verdetto anche questa volta è risultato lo stesso: i cefalopodi sono in aumento. E non solo negli abissi oceanici, o in mare aperto. Molte delle specie analizzate abitano infatti lungo le coste, zone in cui gli effetti del riscaldamento, dell’inquinamento e della pesca eccessiva hanno diminuito fortemente l’abbondanza di moltissime specie marine. La diagnosi, secondo i ricercatori australiani, è chiara: i cefalopodi stanno prosperando grazie ai cambiamenti apportati agli ambienti dall’attività umana, e il merito potrebbe essere della loro forte capacità di adattamento.

“I cefalopodi sono spesso chiamati erbacce del mare, perché hanno una seri di tratti biologici come crescita rapida, cicli vitali brevi e uno sviluppo flessibile”, spiega Zoë Doubleday, ricercatrice dell’Università di Adelaide che ha coordinato lo studio. “Grazie a queste caratteristiche sono in grado di adattarsi ai cambiamenti ambientali (come l’aumento delle temperature) molto più velocemente di altre specie marine, e potrebbero quindi beneficiare dei mutamenti in atto negli oceani”.

La pesca intensiva, aggiunge l’esperta, ha diminuito inoltre nei mari la presenza di molte specie di pesci che rappresentano predatori naturali dei cefalopodi, o che competono con loro per le stesse risorse di cibo. E anche questo potrebbe aver favorito la crescita del numero di polpi e calamari negli oceani.

Le cause citate, ammettono i ricercatori, per ora sono solamente ipotesi, che andranno confermate in futuro da ulteriori studi. Sull’aumento delle popolazioni di cefalopodi non ci sono però dubbi, perché il trend osservato, che copre un periodo di 60 anni, è più lungo dei normali cicli di crescita e decrescita delle popolazioni marine osservati negli oceani.

Il fenomeno, aggiunge la ricercatrice, è destinato ad avere conseguenze importanti, anche se estremamente difficili da prevedere. “I cefalopodi abitano in tutti gli ambienti marini, e sono voraci predatori, ma anche un’importante fonte di cibo per molte specie animali, compreso l’uomo”, conclude Doubleday. “Per questo, il loro aumento ha implicazioni importanti, ma estremamente complesse, sia per la catena alimentare degli econosistemi marini, che per la nostra specie”.

via Wired.it

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