Una possibile cura per l’Alzheimer. È quanto annuncia un nuovo studio pubblicato su Science Translational Medicine da un gruppo di ricercatori americani, che hanno sperimentato l’efficacia di una molecola, il verubecestat o MK-8931, su animali e nell’essere umano, con risultati incoraggianti. Si tratta di un inibitore della produzione del peptide -amiloide (A), il cui accumulo nel tessuto cerebrale è associato agli effetti negativi della malattia. La molecola, che riduce la concentrazione del peptide A in modo dose-dipendente, non ha causato effetti collaterali importanti sul campione d’individui ai quali è stata somministrata.
L’Alzheimer è una patologia cronico-degenerativa a carico del sistema nervoso centrale, caratterizzata dalla progressiva degenerazione del tessuto cerebrale e conseguente decadimento delle capacità cognitive e della memoria. La malattia è associata alla formazione di placche amiloidi, aggregati proteici contenenti il peptide A, che si accumula nelle cellule dei pazienti danneggiandole in modo irreversibile. Bloccare la sintesi del peptide amiloide o la sua aggregazione in placche è quindi considerata una strategia da percorrere per impedire la progressione della malattia.
Il peptide amiloide si forma per taglio della proteina precursore dell’amiloide (APP) ad opera di due proteasi. L’inibizione di uno di questi enzimi, detto -site amyloid precursor protein cleaving enzyme 1 o BACE-1, si configura come target farmacologico promettente per bloccare la formazione di A. Tuttavia, nonostante, in passato, alcune molecole si siano dimostrate efficaci inibitori della proteina purificata, il passaggio nell’animale e nell’uomo è risultato tutt’altro che facile, a causa dei loro pesanti effetti collaterali. “Studi precedenti per l’inibizione dei meccanismi amiloidi sono spesso associati a tossicità epatica o ad ulteriori fenomeni neurodegenerativi, che limitano la dose che può essere somministrata” spiega Matthew Kennedy, uno degli autori che ha firmato lo studio.
Al contrario, il verubecestat non ha mostrato segni evidenti di tossicità sugli animali da esperimento – ratti e scimmie – né su un piccolo gruppo di volontari sani e malati di Alzheimer. Inoltre, nel plasma e nel sistema nervoso centrale di tutti i soggetti trattati si è riscontrata una diminuzione dose-dipendente della concentrazione del peptide A, che ha raggiunto il 90% alle dosi più elevate. “La disponibilità di inibitori di BACE1 privi di effetti collaterali, come il verubecestat, è importante non solo per il successivo sviluppo di farmaci, ma anche per comprendere il ruolo fisiologico di BACE e ogni possibile effetto negativo della sua inibizione” commenta Kennedy.
Ora il farmaco passa alla fase 3 della sperimentazione clinica. Questa coinvolgerà circa 2000 pazienti per un tempo di 18-24 mesi, e servirà a confermare o meno la reale efficacia e fruibilità del farmaco. “La sperimentazione ci permetterà di capire se il verubecestat può rappresentare la tanto attesa cura contro l’Alzheimer” conclude Kennedy. “Inoltre, sarà utile per confermare definitivamente la cosiddetta ipotesi amiloide – quella che vede nell’accumulo di aggregati proteici la causa primaria, e non la conseguenza, della malattia di Alzheimer – su diverse popolazioni di pazienti”.
Riferimenti: Science Translational Medicine