L’egoismo e l’ignoranza

Globalizzazione e diritto internazionale. Il mondo ha sempre più bisogno di regole che oltrepassino i confini nazionali, e dunque di un diritto internazionale efficace. Un diritto che, per essere davvero super partes, dovrebbe inoltre salvaguardare soprattutto i principi universali di giustizia, nel rispetto dei principali diritti umani universali. Ma è proprio questa la tendenza che si sta configurando? O forse si assiste ad una riproposizione, su vasta scala, delle medesime logiche di potere da parte di alcune superpotenze che hanno guidato la politica mondiale fino ad oggi? Abbiamo discusso di questi temi con Flavia Lattanzi, docente di Diritto internazionale alla LUISS di Roma e all’Università di Teramo

Professoressa Lattanzi, è vero che la crescente globalizzazione porta alla necessità di un diritto internazionale più efficace che nel passato?

Sì, questo può essere certamente vero. Però bisogna tenere presente che il diritto internazionale e la globalizzazione non spingono necessariamente nella stessa direzione. La globalizzazione può non essere altro che uno strumento per imporre i valori di alcune potenze rispetto ad altre, mentre il diritto internazionale, quello odierno soprattutto, è un diritto di compromessi fra forze sociali contrapposte. Io credo che la globalizzazione porterà a una maggiore efficacia di un diritto che esprime i valori soltanto di una parte, e non del diritto internazionale di cui è frutto la carta delle Nazioni Unite, che pone alla base il principio fondamentale del rispetto della diversità dei regimi economici sociali e culturali. Globalizzazione non significa assolutamente questo. Significa invece un cambiamento proprio della logica su cui si fonda la carta fondamentale della comunità internazionale. Per questo motivo il processo di globalizzazione e il diritto internazionale potrebbero anche essere in contrapposizione piuttosto convergere verso un fine comune.

Uno dei luoghi comuni più diffusi è che il diritto internazionale sia basato su principi più giusti, per esempio i diritti umani o in generale principi umanitari universali, rispetto ai singoli ordinamenti nazionali. Cosa ne pensa?

Questo in parte può essere vero. In verità il diritto umanitario si è imposto prima nelle relazioni internazionali che nei sistemi statali. Però questo vale solo in un contesto particolare, quello dei conflitti armati. Il diritto internazionale umanitario in senso stretto e il diritto umanitario dei conflitti armati è nato nel corso dei secoli. Invece i “diritti umani” (validi in tempo di pace, per intenderci) sono nati successivamente, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, e sono nati per influenza dei sistemi statali. Quindi, sotto certi aspetti è vero che il diritto internazionale si può caratterizzare per una maggiore universalità e una maggiore attenzione per i diritti umani. Ma questo solo per un motivo: perché anche qui si è raggiunto un compromesso, mentre nei sistemi statali o ci sono quelli particolarmente aperti ai valori umanitari – come per esempio il nostro – o ci sono dei sistemi particolarmente sordi ai valori umanitari. Così nella prassi questo contrasto si mostra evidente: esistono sacche in cui i diritti umani vengono violati con tutti i mezzi possibili e immaginabili, anche utilizzando le tecnologie più moderna. Questo accade nei sistemi più arretrati, caratterizzati da maggiori difficoltà di rapporti tra gruppi, minoranze, etnie, razze. Su questi sistemi il diritto internazionale in verità non è riuscito ancora a intervenire. Secondo me per questo motivo: perché i diritti umani nel diritto internazionale sono apparsi solo recentemente. E’ una questione di maturazione, che richiede tempo. Una maturazione che deve avvenire all’interno dei sistemi statali, per la quale il diritto internazionale sta già facendo moltissimo. Più di questo, con i meccanismi e i sistemi a disposizione, non può fare.

Quali sono le resistenze maggiori che oppongono i sistemi statali?

In generale, le difficoltà maggiori che si incontrano nell’indurre i sistemi statali a porre i valori dei diritti umani in primo piano risiedono nelle differenze di carattere economico, che a loro volta creano tensioni sociali. A questo si aggiunge un altro un altro elemento molto grave, di cui ha responsabilità la comunità internazionale: il fatto che gli Stati non riescono a controllare i gruppi economici che si arricchiscono grazie al traffico di armi. Il traffico di armi è una grossa piaga, perché le contrapposizioni economiche, etniche, razziali presenti in certi sistemi statali finiscono col diventare funzionali al traffico delle armi, con la conseguenza che il sistema cerca di inasprire il conflitto piuttosto che superarlo. A questo si aggiunge il fatto che c’è un interesse degli Stati a far rimanere la popolazione nell’ignoranza. Bisognerebbe educare i bambini al rispetto e alla convivenza, invece questo non si fa. Quale interesse può avere uno Stato a istruire i bambini già dall’asilo al rispetto reciproco, se il suo vero interesse è quello di affermare, o per lo meno permettere, il traffico di armi? Assolutamente nessuno. E questo tipo di interessi in verità invece che diminuire col tempo stanno aumentando. Innanzitutto perché nel passato le guerre, anche quelle interne, si facevano con mezzi tradizionali: anche in una guerra civile si aveva in fin dei conti uno scontro tra eserciti. Invece ora la guerra è totale e coinvolge tutta la popolazione civile, e quindi non solo c’è bisogno che ciascuno abbia un fucile sotto il letto, ma anche che abbia la predisposizione a volerlo usare.

Questa è una considerazione molto dolorosa…

Però le cose stanno proprio così. Il fucile lo si può usare solo se c’è l’odio, razziale, etnico, l’odio per la discriminazione economica, per la situazione di miseria in cui ci si trova, un odio che in fin dei conti non si fa nulla per sradicare. Anzi, si fa del tutto per crearlo. Un esempio storico è quello di Hitler, che ha seminato l’odio razziale dall’alto. La stessa cosa è successa in Yugoslavia. L’odio viene sempre seminato dall’alto. Certo, la natura umana comprende anche il fatto di avere un nemico, per cui basta poco per aizzare gli uni contro gli altri. Però queste tensioni non nascono mai dal basso, e si alimentano nell’ignoranza. Per questo motivo, lo strumento che considero primario per far sì che i diritti umani vengano rispettati all’interno delle nazioni è quello l’educazione dei bambini. L’Italia per esempio, dove l’immigrazione è così forte, dovrebbe cercare di investire di più in progetti di istruzione e di formazione nei paesi del Sud del mondo, in America Latina e in Africa soprattutto.

Considera vantaggioso che da parte della comunità internazionale ci siano incentivi di tipo economico per convincere uno Stato a non violare i diritti umani, se uno dei maggiori ostacoli al rispetto di questi diritti fondamentali è proprio la povertà?

Cominciamo col dire che alle Nazioni Unite, dopo il processo di decolonizzazione, nel contesto del cosiddetto “nuovo ordine economico internazionale” si è imposto il principio del trattamento preferenziale dei paesi in via di sviluppo da parte dei paesi sviluppati. Questo significava che per risolvere i problemi del mondo, i problemi del rispetto dei diritti fondamentali e dello stesso diritto internazionale, bisognava cominciare a rendersi conto che noi appartenenti al mondo ricco siamo responsabili della crescita economica del mondo povero. E questo è stato uno dei principi fondamentali che hanno ispirato tutta la politica delle Nazioni Unite in materia di cooperazione. Poi c’è stata una battuta d’arresto, anzi direi un’inversione di tendenza, e si è cominciato a pensare che invece si potesse risolvere tutto con l’economia di mercato. Secondo me al giorno d’oggi ci si è resi conto che questo non risolve assolutamente il problema, e che si deve arrivare a una sorta di compromesso tra queste due strategie. Bisogna comunque riconoscere che attualmente il principio di solidarietà, quello previsto dal nuovo ordine economico delle Nazioni Unite, viene predicato solamente dalla Chiesa Cattolica. Io personalmente non sono cattolica, però purtroppo devo riconoscere che ormai è rimasta solo la Chiesa a fare una politica di solidarietà. L’Italia per esempio, di fronte al problema dell’immigrazione che la tocca così da vicino, dovrebbe avere una leadership che cerchi di promuovere un approccio diverso a questi problemi, che riesca ad aiutare queste persone nel loro paese invece di farli arrivare fino a qui. Questa era l’idea alle Nazioni Unite. E questa idea è fallita per l’egoismo dei paesi ricchi. Come potremo mantenere il nostro standard di vita se non ci fosse qualcuno che nel frattempo muore di fame in Africa? E’ duro da riconoscere ma è così. La globalizzazione significa anche questo: significa che c’è qualcuno che muore di fame per noi, perché noi si possa avere tutti un telefonino. E l’Italia dovrebbe e potrebbe fare qualcosa di più. Sia perché ha delle forze, dei cervelli capaci di comprendere il problema, sia perché ha una posizione geografica che comporta una responsabilizzazione maggiore. Tra l’altro, se noi paesi ricchi non riusciremo in qualche modo a risolvere questo tipo di problemi saremo travolti anche noi. Saremo travolti dalle guerre, dai conflitti, dalla povertà.

Quanto può contare il problema della responsabilizzazione individuale?

Attualmente sul piano internazionale si sta lavorando per rendersi conto che gli Stati non sono delle entità astratte, e per riconoscere che il cosiddetto “Stato criminale” è fatto di singoli individui o di singoli gruppi di criminali. Anche l’istituzione della Corte Penale Internazionale (di cui è stato approvato lo statuto, ma che per esistere necessita ancora di 53 ratifiche) è un tentativo di responsabilizzare l’individuo. Lo statuto della Corte prevede che se personalmente si commette un crimine si è responsabili di fronte a tutta la comunità internazionale, e quindi si può essere puniti. Non è un fatto interno di uno Stato o di un altro, non vale il principio della prescrizione o dell’immunità. Persino un capo di Stato può essere perseguito. E questo è uno dei tanti sistemi per cercare di diffondere il valori umanitari e la responsabilità individuale per il rispetto dei valori umanitari. Ma è uno. E’ quasi una goccia nel grande mare di quello che ci sarebbe bisogno di fare.

Da quale volontà può partire una spinta forte?

Purtroppo solo dalla volontà degli Stati, perché gli Stati sono gli unici veri protagonisti delle relazioni internazionali. Certo, si può fare qualche cosa anche dal basso: la società civile, le organizzazioni internazionali che esprimono la società civile, in realtà fanno tantissimo. Non dimentichiamo per esempio che la Corte Penale Internazionale è stata fatta soprattutto grazie alla pressione delle Organizzazioni non governative, e dunque della società civile. Quindi secondo me si può fare moltissimo dal basso, premendo sui governi e indirizzandoli verso certe scelte. Anche se i governi hanno degli interessi egoistici, perché sono fatti di persone che stanno al potere soprattutto per interessi personali, ritengo che la comunità umana sia sempre in cammino, e che col tempo riesca a far affermare certi valori e anche a farli rispettare. Come per esempio una maggiore considerazione degli interessi dei popoli, dell’umanità, e una minore considerazione degli interessi dei gruppi di potere. Ma la pressione in questo senso deve venire dal basso. Quello che invece si potrebbe fare dall’alto, se ci fosse una volontà politica seria, è il controllo del traffico delle armi. Questa è la prima cosa. Intanto, con i soldi spesi in armamenti si potrebbe dare da mangiare ai popoli che ne hanno bisogno. Eppure non si riesce ad adottare una convenzione internazionale per il controllo del traffico di armi. Ci sono resistenze troppo forti. In questo l’Italia ha dato un esempio di grande civiltà: in tre anni le aziende che producevano le mine anti-persona sono state convertite. C’è stata una volontà politica forte, abbiamo fatto una legge estremamente avanzata, direi la più avanzata del mondo in questo. Questo è il segno che quando le cose si vogliono fare si riescono a fare, anche velocemente.

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