Influenza aviaria da virus A(H5N1): perché non dobbiamo sottovalutarla

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Chickens at the Somali Poultry Farm in Mogadishu, Somalia. Original public domain image from Flickr

Il virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (highly pathogenic avian influenza) A(H5N1) sta suscitando un certo allarme per diverse ragioni, fra cui lo spiccato neurotropismo, ossia la tendenza del virus a concentrarsi soprattutto all’interno del tessuto nervoso, e la sua conseguente capacità di causare danni neurologici in numerose specie di uccelli e di mammiferi sia domestici che selvatici. Fra queste ricordiamo ad esempio i pinnipedi (come le foche), i cetacei e anche gli orsi polari, con un caso accertato lo scorso gennaio in Alaska.

L’allerta è inoltre giustificata dall’ormai comprovata suscettibilità dei bovini all’infezione, come testimoniano i numerosi casi recentemente rilevati nella popolazione bovina statunitense. In Texas, tra l’altro, un allevatore ha contratto l’infezione e sviluppato una congiuntivite a entrambi gli occhi a seguito del contatto con un animale contagiato. E un episodio analogo è stato riscontrato poche settimane dopo in Michigan.

Da sottolineare anche il preliminare ritrovamento del virus A(H5N1) nelle acque reflue di alcune cittadine del Texas, negli USA – come già segnalato in precedenza sia per il poliovirus sia per il betacoronavirus SARS-CoV-2 -, che potrebbe avere origine da allevamenti di polli o di bovini, se non addirittura origine umana.

I bovini come possibili “mixing vessel”

Bisogna tenere presente che la sorveglianza epidemiologica dell’infezione da virus A(H5N1) nella popolazione bovina è ostacolata dal fatto che le manifestazioni cliniche in questa specie sono generalmente di lieve entità, motivo per cui il numero effettivo di casi rischia di essere sottostimato.

Inoltre, secondo alcuni studiosi, i bovini potrebbero costituire quello che in inglese viene definito “mixing vessel”, ossia potrebbero favorire il “rimescolamento genetico” tra virus di origine aviaria e di origine umana, analogamente a quanto già osservato per i suini. Questo perché le ghiandole mammarie dei bovini sembrano contenere molti recettori per il virus A(H5N1), rendendo così il latte – soprattutto quello crudo, dove è stato già riscontrato – una possibile fonte di contagio per gli esseri umani.

Nel tempo, ciò potrebbe a sua volta permettere al virus di acquisire la capacità di trasmettersi da essere umano a essere umano. Per quanto rimanga attualmente soltanto un’ipotesi, tale evenienza sembra plausibile, vista e considerata l’elevata propensione dei virus influenzali a sviluppare mutazioni del proprio “make-up” genetico attraverso fenomeni di riassortimento o ricombinazione genomica.

Un rischio da non sottovalutare

Come anticipato, il virus A(H5N1) è in grado di infettare specie molto diverse fra loro e ha recentemente causato una significativa mortalità fra uccelli selvatici e mammiferi marini lungo le coste di numerosi paesi del Sud America: si calcola che siano morti almeno 30mila leoni marini.

I casi di malattia negli esseri umani sono stati finora numericamente limitati e si sono manifestati con sintomatologie piuttosto variabili. Tuttavia, il rischio zoonosico (ossia il rischio che si verifichi un salto di specie) associato a tutti i ceppi di virus A(H5N1) e ad altri sottotipi non può essere sottovalutato, come peraltro testimonia il caso recentemente segnalato dall’OMS di un paziente messicano con diverse condizioni mediche morto dopo infezione da virus A(H5N2).

La situazione in Europa

Per quanto riguarda l’Europa, fra dicembre 2022 e marzo 2023 si è registrata un’ulteriore diffusione dell’agente patogeno ai mammiferi marini, con un caso di meningoencefalite da virus A(H5N1) in una focena (Phocoena phocoena) spiaggiata lungo le coste svedesi. Il caso è in stretta connessione epidemiologica con una serie di contagi accertati nei volatili selvatici.

Il rischio per la popolazione generale in Europa è considerato basso, ma si presume che lo stesso possa essere di grado più elevato in categorie di individui professionalmente esposte al virus. Rimane quindi cruciale diagnosticare tempestivamente e notificare in modo rapido tutti i casi sospetti, per sviluppare, attraverso l’adozione di rigorose misure di biosicurezza, efficaci strategie di contenimento e prevenzione per proteggere il benessere degli animali e degli esseri umani e tutelare la biodiversità.

Le linee guida attuali, riassunte in un documento diffuso dalla World Organization for Animal Health (WOAH), sono state formulate da un panel di esperti internazionali insieme al Centro di Collaborazione per la Salute dei Mammiferi Marini in risposta agli ultimi episodi di malattia che hanno coinvolto le popolazioni di mammiferi marini lungo le coste del Sud America, e forniscono indicazioni importanti per la progettazione di strategie preventive e di gestione di eventuali focolai.

Gli autori

Cristina Casalone (1), Giovanni Di Guardo (2)

1) DVM, Dirigente Veterinario presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Torino

2) DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

Bibliografia citata

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Credit immagine: Tobin Jones/Rawpixels