Non ci sono testimoni diretti di ciò che sta avvenendo in Tibet. Gli stranieri sono stati espulsi,la censura cinese oscura radio e televisioni e anche Internet fatica a rimanere il canale di libera circolazione delle notizie che conosciamo. Gli scontri delle scorse settimane hanno mietuto almeno 140 vittime secondo il governo tibetano in esilio. Secondo le autorità cinesi, invece, i decessi sono stati 18, per le cui famiglie è già pronta un’indennità. Per misurare la temperatura di ciò che sta avvenendo in Tibet il mondo guarda al versante indiano, dove in molte città continuano a svolgersi manifestazioni pro Tibet. Ma gli scontri, come ha dovuto ammette anche la Cina, si sono allargati ad alcune province cinesi del Sud. Eppure un modo per farsi un’idea di cosa sta avvenendo ci sarebbe, almeno in teoria: usando le immagini satellitari.
È successo per il Darfur, quando nel settembre 2004 l’Agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense (Usaid) insieme al dipartimento di Stato chiesero ai gestori del satellite commerciale QuickBird di scattare immagini ai confini del Sudan, per stimare il movimento migratorio dei profughi e avere prove delle razzie nei loro confronti. Prove difficili da ottenere in altro modo, vista l’assenza di testimoni super partes. Le tecnologie geospaziali sono state usate anche da Human Rights Watch per capire quante vittime aveva prodotto nella popolazione civile l’operazione Iraqui Freedom. E ancora per documentare la distruzione dei centri abitati nella Striscia di Gaza a opera dell’esercito israeliano.
“Dipende da cosa si vuole vedere, a quale risoluzione, e con quale frequenza si vogliono scattare le immagini”, spiega Lorenzo Bruzzone, professore di Telecomunicazioni all’Università di Trento. I satelliti possono riprendere due tipi di immagini, nel visibile, simili a quelle delle macchinette digitali, oppure radar, composte da un serie di informazioni piuttosto complicate da codificare. Con entrambe si può arrivare a una risoluzione di mezzo metro, ma le immagini sono molto diverse fra loro: nel primo caso si possono individuare, per esempio, anche delle persone, nel secondo si riescono a stimare meglio i danni al territorio, per esempio edifici distrutti. Nel caso specifico del Tibet si riuscirebbero a individuare grandi masse di persone in movimento oppure colonne di mezzi militari.
A oggi il limite tecnico principale è la frequenza con cui è possibile monitorare una determinata area: “Prima di tutto, quando passa sulla zona che si vuole controllare il satellite deve essere puntato in modo da scattare la giusta fotografia, ma questo può avvenire in media una sola volta a settimana”, va avanti Bruzzone. Difficile quindi farsi un’idea in tempo reale di quanto sta accadendo. Ma le cose presto cambieranno. Grazie alla costellazione di satelliti Cosmo Sky-Med lanciati dall’Agenzia Spaziale Italiana. “Al momento in orbita ci sono solo due dei quattro satelliti e non sono ancora in piena attività, ma quando l’intera costellazione sarà operativa contiamo di poter dare immagini di una determinata zona ogni 12 ore”, spiega Alessandro Coletta, responsabile Asi del progetto.
Limiti solo tecnici, allora? Non proprio. “In linea di principio l’industria può fornire immagini entro 48 ore dalla richiesta”, spiega Nick Veck, responsabile di Infoterra, un consorzio di aziende che lavorano nel campo della mappatura geospaziale. “C’è solo un satellite in orbita che ci permette di individuare anche singole persone, gli altri ci danno immagini meno precise. Ma in ogni caso per rendere pubbliche le foto abbiamo bisogno della richiesta di un’agenzia umanitaria”. Gli fa eco Coletta: “I satelliti possono prendere immagini ma non possono diffonderle al pubblico, se non in accordo con la nazione a cui si riferiscono o sotto la responsabilità di organismi internazionali”. Per il Darfur si sono mosse l’Onu e le agenzie Usa, per il Tibet allo stato attuale nessuno ha ancora pensato di usare queste tecnologie.