Ancora oggi il meccanismo che sovraintende alla nostra capacità di ragionare, di essere consapevoli di noi stessi e del mondo, di sentire e provare emozioni e ideare nuovi concetti è, in gran parte, ancora da svelare. E, a quanto pare, sarebbe tutta colpa dell’approccio e dell’arretratezza delle tecniche finora disponibili: è quanto sostiene Tai Sing Lee, professore del dipartimento di Computer Science della Carnegie Mellon University, che in collaborazione con un gruppo di ricercatori di Harvard e altri centri di ricerca, ha avviato un ambizioso programma quinquennale. L’obiettivo? Effettuare un reverse engineering del cervello umano, con un investimento iniziale di ben 12 milioni di dollari.
Per i non addetti ai lavori, il reverse engineering è un’analisi dettagliata del comportamento, dell’architettura e del funzionamento di un oggetto, la cui finalità è produrre un nuovo oggetto in grado di esibire un comportamento del tutto simile. O, addirittura, potenziato. Sebbene l’impresa sia ardua e, per molti versi, senza precedenti (sebbene non si possano escludere i due grandi progetti sul cervello, quello europeo e statunitense, lo Human Brain Project e la Brain Initiative), Tai Sing Lee è convinto di poter raggiungere il suo scopo iniziando col colmare le grosse lacune conoscitive sull’effettivo funzionamento dell’intelletto umano.
In maniera similare a quanto fatto nell’ambito dello Human Genome Project, il cui obiettivo era la mappatura completa del genoma umano, secondo Lee occorre prima di tutto creare una rappresentazione efficace delle funzioni eseguite dalla nostra complessa ed intricata rete di neuroni.
Il team di ricerca ha così iniziato con l’analisi delle tecniche di modellazione dell’intelligenza, e ha ripescato uno strumento molto in voga nei primi anni ’80: le cosiddette reti neurali. Si tratta, come il nome stesso suggerisce, di modelli matematici che rappresentano l’interconnessione tra elementi capaci di elaborare informazioni, detti neuroni artificiali. In pratica, nodi che eseguono operazioni definite, sono collegati da rami che consentono il passaggio di informazioni da un nodo all’altro. In maniera del tutto simile a quanto, apparentemente, accade nel cervello umano.
Già negli scorsi decenni le reti neurali sono state “addestrate” per imparare a eseguire con successo alcuni task ben definiti, come ad esempio il riconoscimento di un volto umano in una immagine, o la comprensione di brani parlati o scritti in varie lingue.
Ed è proprio il processo di addestramento delle reti neurali che, finora, ha rappresentato il principale limite nel loro sviluppo: si tratta di un’attività laboriosa, che richiede spesso tempi lunghi, in cui gli sviluppatori forniscono alle loro creature specifici “ingressi”, attendendosi ben determinate uscite, e, in base all’accuratezza del risultato, modificano i parametri della rete per “aggiustare il tiro”. Ad esempio, se la rete deve riconoscere una lettera scritta da mano umana, i ricercatori forniscono un file che contiene l’immagine della lettera (ad esempio, una “a”) e intervengono sulla rete finché essa non produce il risultato atteso, ossia il riconoscimento della lettera “a”.
Appare chiaro, quindi, che questo tipo di apprendimento è necessariamente supervisionato, e richiede un lavoro notevole da parte degli operatori umani. Il team del professor Lee, tuttavia, è convinto che la crescita vertiginosa della potenza di calcolo degli elaboratori disponibili odiernamente e nei prossimi anni, ed una serrata ricerca sul comportamento degli organismi viventi, possa condurre ad un enorme potenziamento della tecnica delle reti neurali.
Infatti, nel programma sono stati coinvolti anche il Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering, e il Cold Spring Harbor Laboratory del Mit, con lo scopo di sviluppare tecniche rivoluzionarie, ispirate dallo studio di essere viventi, per costruire un modello completo della “circuiteria neuronale” del nostro cervello. Questo approccio consiste nel “forzare” un sistema artificiale a comportarsi come una mente, ritenendo di fatto che i prodotti della mente stessa non siano che un frutto di complesse elaborazioni.
Tuttavia, su di esso ci sono molte riserve e critiche espresse non solo dai ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale, ma anche da esperti di filosofia della mente: David Chalmers ne è un esempio illustre.
Il filosofo australiano, infatti, nel suo saggio “The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory” (1996), edito da Oxford University Press, ha il merito di aver formulato in modo rigoroso i principali problemi legati alla coscienza umana:
- Problema facile (easy problem): individuare un modello neurobiologico della coscienza. Secondo Chalmers, considerati gli enormi progressi della ricerca in campo neuroscientifico, (in pratica, quelli a cui il team di Lee si appella), sarà possibile determinare un modello della mente che descriva in pieno alcune capacità fondamentali: ad esempio tradurre simultaneamente in più lingue, intrattenere una conversazione, dimostrare teoremi.
Di ben altra portata è invece il cosiddetto:
- Problema difficile (hard problem) che è relativo alla spiegazione del perché un essere umano è cosciente di sé stesso e delle azioni che è in grado di compiere.
In altri termini, se non si risolve il secondo problema, per Chalmers si potrà raggiungere un progresso enorme nel creare macchine evolute che si comportino come umani, ma che internamente saranno nient’altro che “zombie artificiali”, incapaci di qualunque emozione o autoconsapevolezza.
A tutt’oggi è assai poco chiaro come un ammasso di neuroni e connettori neurali artificiali possa raggiungere un grado di complessità tale da includere in sé la risoluzione del problema difficile di Chalmers. Probabilmente siamo ancora lontani dalla conoscenza necessaria per affrontare una sfida simile. Ma c’è chi è pronto ad affrontarla.
Credits immagine: flora cyclam/Flickr CC
Lo human brain project ha a disposizione un miliardo per fare la stessa cosa. Non capisco dove stia la novità.