Facebook è morto, lunga vita a Facebook. A valle dell’affaire Cambridge Analytica, in molti hanno dato per spacciato il social network di Zuckerberg, reo di aver utilizzato impropriamente (molto impropriamente) i dati in suo possesso, condividendo informazioni sensibili con app terze senza che gli utenti ne fossero consapevoli e violando così le condizioni di utilizzo accettate dagli utenti stessi al momento dell’iscrizione. Non è certamente la prima volta che accade, ma le dimensioni dello scandalo, in questo caso, sono state particolarmente importanti – si parla di oltre 50 milioni di utenti coinvolti – tanto che il ceo di Facebook si è dovuto sottoporre a due audizioni al Congresso statunitense per cercare di fare chiarezza sull’accaduto. Diverse personalità del mondo della tecnologia (e non solo) hanno preso posizioni perentorie: Elon Musk, per esempio, ha cancellato tutti i profili Facebook delle sue aziende, mentre Brian Acton, cofondatore di WhatsApp (ora di proprietà di Facebook) ha lanciato la campagna #deleteFacebook, invitando esplicitamente gli utenti a cancellarsi dalla piattaforma.
Indovinare cosa succederà non è semplice; in ogni caso, vista la pervasività di Facebook nella vita quotidiana, l’ipotesi di un esodo di massa verso altre piattaforme, o verso una disconnessione totale, sembra abbastanza lontana. Ma come mai è così difficile (perché lo è) lasciare Facebook e simili? A tenerci incollati al social network è un insieme di fattori psicologici, sociologici, antropologici ed economici.
Cerchiamo di capire quali sono i principali.
Qualche numero
Anzitutto, i numeri. I dati ufficiali più aggiornati sono quelli rilasciati dalla piattaforma il 31 gennaio 2018 (prima di Cambridge Analytica, dunque) e relativi all’ultimo trimestre del 2017. Facebook dichiara di avere 2,13 miliardi di utenti attivi, il 14% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Oltre la metà, 1,15 miliardi e mezzo di persone, si collegano quotidianamente a Facebook tramite smartphone (tra un attimo capiremo perché questo dato è così rilevante); anche in questo caso, si tratta di un aumento abbastanza consistente (+23%) rispetto all’anno precedente. Per inciso: gli introiti provenienti dalle pubblicità su mobile hanno rappresentato l’88% degli incassi pubblicitari totali. Ogni secondo che passa, vengono pubblicati 500mila commenti, 293mila aggiornamenti dello stato, 136mila foto e vengono creati cinque nuovi profili. Purtroppo, mancano però i dati più aggiornati, quelli successivi allo scandalo recente. Per saperne qualcosa di più, e capire se effettivamente se Cambridge Analytica ha avuto conseguenze significative sull’utenza di Facebook, dovremo aspettare il 25 aprile, data in cui la piattaforma dovrebbe rilasciare i numeri relativi al primo trimestre di quest’anno.
Relazioni malsane…
Qualche considerazione, però, possiamo farla lo stesso. Anche perché, fatte le debite proporzioni, come accennato, non è la prima volta che Facebook viene travolta da uno scandalo (spigolando a caso: nel lontano dicembre 2007, Zuckerberg dovette scusarsi per il lancio di Beacon, una funzione che sarebbe dovuta servire a “migliorare la condivisione delle proprie informazioni” e che invece si rivelò “un pessimo lavoro”; a giugno 2013 fu svelata l’esistenza di un bug che rendeva visibili indirizzi e numeri di telefono di circa 6 milioni di utenti): in tutti i casi, l’utenza si è sempre riconciliata con la piattaforma, dimenticando in fretta gli abusi. “Proprio come accadrebbe in una relazione sentimentale sbilanciata”, si legge in un articolo di commento pubblicato su The Conversation, “gli utenti hanno una dipendenza psicologica che li tiene agganciati nonostante sappiano che, in qualche modo, non fa loro bene”.
…e cattive abitudini
Indagare tutti i meccanismi che ci tengono legati a doppio filo a Facebook non è semplice, perché si tratta di meccanismi complessi e afferenti a diversi ambiti. “Il fenomeno della dipendenza da Facebook e, più in generale, dai social network, si può spiegare solo con un approccio multidisciplinare”, ci racconta Giuliano Caggiano, esperto dell’Ordine degli psicologi della Regione Lazio. “Il paradigma coinvolto è di carattere contemporaneamente psicologico, sociologico, antropologico, economico e tecnologico”. Concentrandosi sugli aspetti psicologici, la dipendenza è legata in prima istanza al fatto che si tratta di un automatismo: “Stando agli ultimi dati”, prosegue lo psicologo, “sentiamo il bisogno di toccare lo smartphone 18 volte ogni ora, per un totale di circa due ore e mezza al giorno. Collegarsi ai social network è diventata un’abitudine incontrollabile, un paradosso nevrotico. Un po’ come mangiare o fumare quando si è annoiati: sappiamo che sono abitudini malsane, ma lo facciamo lo stesso”.
Questione di protesi
La questione di abitudini e dipendenze dallo smartphone è stata ampiamente indagata da Derrick de Kerckhove, giornalista e sociologo belga che, nel saggio “La pelle della cultura e dell’inntelligenza connessa”, è arrivato a definire lo smartphone come protesi antropomorfa, che ha generato una mente accresciuta: “Lo smartphone”, commenta ancora Caggiano, “è diventato ormai un’estensione del nostro corpo. E, in quanto tale, diventa estremamente difficile staccarsene: da un punto di vista psico-sociologico non si può fare a meno di questa protesi antropomorfa perché, proprio come altre protesi, contribuisce alla determinazione della propria identità”. Smartphone e social network, secondo de Kerckhove, avrebbero addirittura contribuito a sostituire l’inconscio individuale con un inconscio digitale, “un insieme di dati, informazioni e saperi di cui ci si alimenta in continuazione online. Un inconscio non individuale ma globale, che ha una velocità estrema nel facilitare l’accesso alle sue componenti informative e di far emergere a livello conscio la marea di dati in esso contenuti e in modo che possano essere usati in tempo reale”, e la cui forza “è tale da cambiare i comportamenti delle persone e la loro etica comportamentale sia individuale sia sociale”. E quindi, di conseguenza, a tenerci incollati alla piattaforma.
Costruzione del sé
Le piattaforme social, spiega ancora Caggiano, sono diventate strumenti fondamentali per la costruzione della propria identità. “In particolare, i social network contribuiscono a tenere in piedi tre pilastri su cui si fonda la nostra identità: Facebook relativamente ai nostri pensieri e alle nostre emozioni, Instagram relativamente alla nostra immagine e LinkedIn relativamente alle nostre capacità”. Le declinazioni della costruzione del proprio sé sono diverse: i social network aiutano a rinsaldare le relazioni (in uno studio pubblicato nell’ottobre scorso sul Journal of Computer-Mediated Communication si parla esplicitamente di “social grooming”); a riparametrizzare l’immagine ideale di sé che si vuole dare agli altri; a spiare gli altri senza farsi vedere; a sentirsi parte di una comunità più ampia; e infine a guadagnare consensi attraverso mi piace e condivisioni. Veri e propri bocconcini psicologici estremamente succulenti cui il nostro cervello si è ormai abituato e di cui difficilmente riesce a fare a meno.
Verso una saggezza digitale?
In che direzione stiamo andando? Ancora una volta, la risposta non è semplice. “Al momento”, spiega ancora Caggiano, “sembra che ancora non siamo emotivamente e psicologicamente preparati per un fenomeno così complesso. Nello scenario più ottimistico, entro qualche decennio – lo scrittore Mark Prensky individua nel 2030 il possibile momento del cambiamento – potremo però arrivare a un livello di saggezza digitale in cui sapremo servirci di questi strumenti in modo più sano e ragionato”. Nel caso contrario, si cancelli chi può.
Via: Wired.it