Nelle specie di animali sociali, l’organizzazione gerarchica è alla base delle dinamiche del gruppo. Per raggiungere il vertice della gerarchia sono necessarie caratteristiche personali come il coraggio e la perseveranza, oltre che la forza. È stato osservato però che battere gli avversari e ottenere una posizione di dominio sociale aumenta le probabilità di vittoria future, secondo un principio denominato effetto del vincitore. Alla ricerca della base biologica del “winner effect”, un team di neuroscienziati cinesi ha effettuato esperimenti sui topi scoprendo un meccanismo neurologico che rinforza la dominanza sociale, descritto in un articolo su Science.
Era già noto che la regolazione della dominanza è controllata dai neuroni della corteccia prefrontale dorsomediale (dmPFC), la parte del cervello implicata nella percezione di sé. Il team cinese ha dunque considerato un campione di 22 topi monitorando l’attivazione di 342 neuroni della dmPFC durante il “test del tubo”, in cui una coppia di topi incontrandosi in una strettoia deve “sfidarsi” per passare dal lato opposto. I ricercatori hanno distinto 5 possibili comportamenti (spinta, spinta indietro, resistenza, ritirata e immobilità) e hanno correlato i picchi di attività dei singoli neuroni della regione interessata con l’istante di ciascuna azione.
Ottenuti i dati sui topi “normali” e stabilito un ranking in base alle vittorie ottenute in ogni sfida, i ricercatori hanno condotto altre due serie di esperimenti analoghi per studiare l’effetto dell’inibizione e della stimolazione dei neuroni più coinvolti.
Per inibire i neuroni hanno impiegato una tecnica denominata DREADD, che sfrutta alcuni recettori (GPCR) ingegnerizzati per rispondere a una molecola specifica (in questo caso clozapina-N-ossido, CNO). Iniettando un adenovirus – innocuo per la salute – in grado di esprimere un recettore in un sottoinsieme di topi le cui performances nel tube test erano risultate stabili nel corso di tre giorni, i ricercatori hanno scoperto che dopo l’inibizione dei neuroni i topi erano meno propensi alle spinte e più a ritirarsi. Ventiquattr’ore dopo l’iniezione, smaltito l’effetto del CNO, i topi tornavano al loro comportamento normale.
Per studiare l’effetto opposto, ovvero la stimolazione dei neuroni della dmPFC, i ricercatori hanno utilizzato l’optogenetica: nei neuroni della dmPFC gli scienziati hanno iniettato un altro adenovirus geneticamente modificato per esprimere una proteina di membrana fotosensibile, la canal-rodopsina-2, che se illuminata con luce blu (a 473nm) apre un canale per ioni e permette il controllo della funzionalità delle cellule.
Dopo la stimolazione luminosa, topi inizialmente subordinati si sono mostrati immediatamente più resistenti e propensi ad attaccare, e vincitori in un maggior numero di incontri. Il numero di vittorie e dunque l’ascesa verso gradini più alti nella gerarchia è risultato proporzionale all’intensità del laser impiegato nella stimolazione. Né la forza muscolare, né l’aggressività, né i livelli di testosterone sono risultati alterati dalla stimolazione. Inoltre, topi che avevano ottenuto più di sei vittorie grazie alla fotostimolazione hanno conservato la nuova posizione nella gerarchia anche il giorno successivo, senza bisogno di ulteriori “aiuti”, al contrario dei topi che avevano ottenuto meno di 5 vittorie, tornati al loro ranking di partenza.
Gli scienziati hanno attribuito questi risultati alla plasticità dei neuroni, che in caso di ripetute vittorie permette il rafforzamento della rete di sinapsi che collega il talamo mediodorsale alla corteccia prefrontale. L’effetto del vincitore si è rilevato trasferibile anche a situazioni diverse dal tube test, come la competizione per un angolo tiepido in una gabbia. Il tempo passato da ciascun topo nel punto tiepido è correlato ai risultati del tube test, sia nei topi “normali” che dopo la fotostimolazione: un aspetto molto interessante del winner effect anche dal punto di vista evolutivo.
Dal momento che molti disordini della personalità sono legati all’eccesso o alla mancanza di dominanza, l’estensione di questi risultati all’essere umano potrebbe essere in futuro di sostegno alle terapie di alcune malattie psichiatriche.
Riferimenti: Science