Una ricerca pubblicata recentemente da Jama1 analizza la possibile correlazione fra i sintomi di depressione dei medici e gli errori clinici da loro commessi. Benché questa correlazione non sia condivisa in modo unanime, la ricerca apre temi importanti: è possibile evitare l’errore medico? È possibile evitare che quello che viene considerato “errore” abbia ripercussioni, oltre che sulla salute e la vita del paziente, anche sul benessere emotivo futuro suo e dei suoi famigliari, e sul benessere emotivo del medico? Su questo ultimo punto la ricerca sembra indicare che il medico che presenta sintomi depressivi dopo aver commesso un errore è più esposto al rischio di commettere errori futuri. Da qui la necessità di individuare interventi in grado di prevenire l’insorgere dei sintomi depressivi nel medico, in modo da ridurre il rischio di errori futuri, e migliorare sia il benessere del medico sia la qualità delle cure da lui prestate. La percezione di qualità delle cure è infatti strettamente legata alle decisioni che accompagnano il percorso diagnostico-terapeutico: le frasi del quotidiano “il dottore mi ha sbagliato la cura”, “non lo hanno operato al momento giusto”, “hanno detto che non era niente e non lo hanno portato al pronto soccorso” ecc. indicano che le scelte e le decisioni dei medici sono percepite come decisive per l’esito positivo della cura.
Imparare dagli errori
Il tema del “dopo errore” è però poco trattato sia in medicina sia negli altri campi (ad esempio l’economia o l’aeronautica) in cui le conseguenze dell’errore si ripercuotono in modo pesante su “altri” che possono esserne considerati le vittime. Normalmente, l’attenzione si concentra sul “prima” dell’errore, alla ricerca di quello che, per trascuratezza, incapacità, incompetenza o cattiva volontà del “colpevole”, o per una serie di circostanze avverse, può aver causato l’errore. Tuttavia, questo approccio, che parla di colpevoli, vittime, cause, colpe, riduce la capacità di apprendere dagli errori, o di superarne le conseguenze con il processo noto come “resilienza”.
Uno degli effetti collaterali negativi dell’aumento di azioni legali per veri o presunti errori medici è proprio il mantenere “bloccati” il professionista, il paziente e i famigliari nel ruolo di colpevole e di vittima per i tempi – spesso lunghissimi – del procedimento legale. Se si calcola, come indicano i dati citati in un recente articolo di Repubblica2 che delle 300.000 nuove cause intentate ogni anno contro i medici il 95% si conclude con un proscioglimento, appare chiaro che affrontare il problema dell’errore medico in termini di colpe, denunce e cause per danni non è utile né per i pazienti né per i medici, né per la qualità delle relazioni di cura.
Indagare i processi decisionali
Evitare qualsiasi errore nel percorso diagnostico e nelle scelte terapeutiche è un’impresa impossibile, come è evidente sul piano razionale: la medicina non è una scienza esatta. Tuttavia, esiste certamente un margine di miglioramento. Negli ultimi anni, i processi che portano all’errore medico sono stati indagati dalle scienze cognitive3, in particolare per ciò che riguarda i cosiddetti bias cognitivi e le euristiche, vere e proprie “corsie preferenziali” che il cervello utilizza nel prendere decisioni veloci in situazioni di incertezza4. A partire da questo approccio, presso l’Istituto CHANGE5 abbiamo costituito un anno fa un gruppo di studio composto da medici di medicina generale, esperti di filosofia della scienza e scienze cognitive e gli esperti di narrazione in medicina dell’Istituto, con l’obiettivo di capire come e quanto gli aspetti narrativi, nell’incontro fra medico e paziente, condizionano il percorso decisionale dell’uno e dell’altro e possono facilitare errori nelle scelte cliniche.
La ricerca è partita da uno studio di Wilson del 1999, riportato da Crupi in un articolo di alcuni anni fa6 in cui si afferma: “Un errore medico su sei si verifica nel sintetizzare le informazioni disponibili, o nel decidere e agire alla luce di quelle informazioni».
La domanda che ci siamo fatti è: quante delle informazioni che il medico raccoglie per prendere le sue decisioni provengono dal paziente? Che siano molte, moltissime, è evidente: i medici imparano a raccoglierle con lo strumento classico dell’anamnesi, a cui aggiungono l’”esame obiettivo” – la visita – che produce a sua volta informazioni che lo porteranno a cercare ulteriori informazioni attraverso gli esami clinici. Ma è possibile che in quel primo momento, nella ricerca delle informazioni che il paziente può dare sui suoi sintomi, sulle sue percezioni, sulle sue risposte ai farmaci, ecc., qualcosa ostacoli o distorca il processo di ricerca/acquisizione di informazioni, concentrando l’attenzione su alcuni aspetti, tralasciandone o sottovalutandone altri? E se questo accade, cosa lo rende possibile e come si può evitare ?
Storia di una decisione sbagliata
Per cercare di capire se e come può determinarsi una involontaria selezione delle informazioni che verranno utilizzate per la decisione del medico e per la successiva condivisione della decisione con il paziente, abbiamo analizzato alcune storie di “errori” raccontate, separatamente, dal paziente e dal medico. Ecco la storia raccontata da Alessandro [corsivi nostri]:
“Tutto inizia in una mattina gelida a Trento con una camminata veloce, con ingresso nei polmoni di intensa aria fredda che mi fa trasalire. Tre giorni dopo a Parma, appena arrivo a un convegno molti colleghi guardandomi dicono: “Ma tu non stai bene”. Fatta la mia relazione, gli stessi insistono perché torni a Torino. Immagino uno stato influenzale. La notte forti brividi. Al mattino con calma chiamo il medico. In realtà sono preoccupato, senza darlo a vedere”.
Dunque, Alessandro telefona al suo medico di famiglia, Renzo, che lo segue da anni e con cui ha un rapporto di amicizia, per parlargli di qualcosa che lo preoccupa un po’. In quel momento, sa molte cose sul suo stato di salute, anche più di quelle riportate nel racconto scritto successivamente, ma quante e quali informazioni riferirà al medico? E Renzo, a sua volta, come interpreterà le informazioni fornite dal suo paziente? Che pesò avrà sulle sue decisioni la sua conoscenza della “fonte”? Nel suo racconto, il medico lo descrive così: “Alessandro è un 65 enne diabetico con una vita stressante dal punto di vista lavorativo e con figli non ancora autonomi”. Dal punto di vista narrativo, questa “immagine” di Alessandro coincide con il personaggio che entra in scena, invariabile, in ogni incontro fra il medico e il paziente: Alessandro è quel personaggio. Quella immagine giocherà, in modo più o meno importante, in tutte le decisioni che il medico prenderà insieme a lui.
In realtà sono molte le cose che Alessandro non dirà al medico: quello che ha immaginato di avere (un’influenza? O qualcosa di più grave, che ha immaginato ma aveva troppa paura per permettersi di pensarlo?). Le emozioni che provava, e quelle che fingeva di provare (“chiamo con calma; in realtà sono preoccupato senza darlo a vedere“). E la mistificazione continua: “Il medico mi vista. Da parte mia prevale il non dare importanza ai sintomi, ma soprattutto un’ansia che taccio. Tocca al medico scoprire cosa ho, no? Il medico mi chiede di fargli vedere le ultime analisi e vado in mansarda salendo le scale con molta fatica, ma non ne parlo. Al termine il medico esclude problemi ai polmoni e al cuore, ma dice che se il malessere continua è meglio andare nel pomeriggio al pronto soccorso”.
E’ evidente che l’obiettivo di Alessandro non è di ingannare il suo medico: a che scopo, poi? Ma allora che senso hanno tutti quei “non detto”, l’ostinazione nel non parlare al medico di quell’ansia, di quella percezione di affaticamento inabituale? Sono informazioni che in qualche modo sono state sottratte al medico, rendendo possibile un errore che Renzo ancora si rimprovera, e che ha messo a rischio la vita di Alessandro.
Sentiamo il racconto di Renzo, che dopo la telefonata di Alessandro, arrivata nell’ora di intervallo fra i due turni di ambulatorio, ha deciso di rinunciare al pranzo per andarlo a vedere di persona: quello che Alessandro gli ha raccontato lo ha preoccupato, e già al telefono gli ha anticipato che sarebbe meglio andare in pronto soccorso. Ma poi, come racconta: “Arrivo a casa di Alessandro. Mi appare tranquillo, al momento è asintomatico. I parametri vitali sono buoni. Interrogandolo sull’evidente sospetto clinico mi dichiara che ogni tanto ha ancora dolore non forte o fastidio legato a sforzo , ma non sempre.
Esplicito i miei dubbi. E’ necessaria una valutazione cardiologica e strumentale. Ma con che tempistica? (anche qui ci sono due spinte contrastanti: inviarlo nella bolgia del pronto soccorso o attendere un po’ e rivalutare in un secondo momento). La palla decisionale rimane nel mio campo. Alessandro non avrebbe voglia di andare ora in PS ma se io dico vai lui andrebbe”.
Il non detto lascia spazio all’errore
Alessandro aveva avuto un infarto, probabilmente, nei giorni precedenti. La situazione era urgente, le ore fanno la differenza in questi casi, per la sopravvivenza e per le conseguenze future. Cosa è mancato a Renzo per prendere la decisione “giusta”, quella che ancora si rimprovera di non avere preso? Gli sono mancate le informazioni decisive: in particolare quelle sulle differenze rispetto al “normale”, che Alessandro nota ma non dice: ansia, preoccupazione, fatica inabituale… Agli occhi del medico, invece, Alessandro appare tranquillo: noi sappiamo dal suo racconto che si tratta di una tranquillità imposta, una recita… ma il medico non può saperlo. Di fronte a quella tranquillità, l’idea di mandarlo nella bolgia del pronto soccorso appare eccessiva, troppo gravosa. Non sarà meglio aspettare?
Le scienze cognitive danno un nome a questo tipo di errore decisionale: avversione alla perdita. Rinunciare a qualcosa di apparentemente vantaggioso per un vantaggio futuro soltanto ipotetico è innaturale. Il vantaggio (Alessandro tranquillo) sembra superare lo svantaggio (Alessandro nella bolgia del pronto soccorso). Ma Renzo è un medico, la valutazione di vantaggi e svantaggi dovrebbe superare i meccanismi automatici dell’avversione alla perdita. Cos’altro ha ostacolato la percezione dell’urgenza? E possibile che la particolare relazione di amicizia abbia agito, accentuando l’adesione all’immagine di tranquillità e non preoccupazione che Alessandro stava proponendo. Ma c’è un punto molto significativo nella sequenza dell’incontro, che permette di vedere l’importanza di un uso più attento delle competenze narrative nella conduzione di un colloquio decisionale. Dice Alessandro: “Da parte mia prevale il non dare importanza ai sintomi, ma soprattutto un’ansia che taccio. Tocca al medico scoprire cosa ho, no?“
Ecco: relazione di amicizia o no, il paziente si aspetta che sia il medico a “scoprire” quello che lui non osa dire, o che non sa se è proprio importante dire. Si aspetta domande. Non domande anamnestiche: a quelle finirà per rispondere seguendo il copione già deciso, sottovalutando i sintomi, ostentando tranquillità. E infatti, ci racconta Renzo: “Interrogandolo sull’evidente sospetto clinico mi dichiara che ogni tanto ha ancora dolore non forte o fastidio legato a sforzo, ma non sempre”.
Al medico questo sembra bastare per definirlo “asintomatico”. E la bilancia decisionale si assesta sulla scelta di aspettare ancora. Anche perché l’“evidente sospetto clinico” in realtà non viene affatto esplicitato e condiviso con Alessandro: rimane un sospetto che aleggia fra loro, che Alessandro fa di tutto per indebolire con la minimizzazione dei suoi disturbi.
Domande narrative per esplorare l’esperienza del paziente
Ma come si può evitare che “il non detto” comprometta la correttezza della diagnosi, come può il medico raccogliere gli elementi della storia del paziente che gli servono per arrivare a scelte appropriate? Al di là dell’esperienza di Alessandro e Renzo, è noto quanto la comunicazione tra medici e pazienti possa essere problematica, con la tendenza di questi ultimi, a omettere più o meno intenzionalmente informazioni anche cruciali. Ed è ormai chiaro che semplici domande a risposta chiusa “si” o “no” non bastano. Il paziente può dire molto, ma bisogna saperglielo chiedere, saper stimolare in lui risposte esaustive. Ed è qui – e non solo – che sono cruciali le competenze narrative del medico7.
Che cosa cambia se si utilizzano tecniche narrative nella conduzione di uno scambio di comunicazioni come questo?
Per cominciare, cambia il tipo di domande, e il tipo di informazioni che il medico cerca di ottenere e condividere con il paziente. Informazioni su
- L’esperienza del paziente (cosa gli è successo, che sensazioni ha avuto)
- Le ipotesi che ha fatto (a cosa ha attribuito quelle sensazioni, cosa ha pensato di avere)
- Le differenze (cosa gli sembra inabituale, diverso da altre situazioni di malessere già provate?)
- I timori e le preoccupazioni che ha in questo momento (cosa teme, cosa non vuole che succeda)
Si tratta di aspetti che possono non emergere se esplorati con domande chiuse (Hai ancora dolore? Qualcosa ti preoccupa? Ti senti stanco?). Servono domande “narrative”, formulate in modo da invitare il paziente a descrivere, non a cercare di rispondere nel modo più veloce, e di conseguenza più istintivo. Domande come:
“Prova
a descrivermi bene come ti sei sentito dalla mattina di Trento in
poi… sensazioni inabituali, momenti che ti hanno preoccupato di
più…”
“ Ti ricordi cosa hai pensato di avere… mentre
tornavi in treno… stamattina quando mi hai telefonato…”
Le domande narrative attivano quello che Kanheman definisce “il sistema 2”: il pensiero lento, riflessivo, che limita gli effetti delle sollecitazioni emotive e facilita l’emergere di “strati” informativi che non sono di uso immediato: le cose che diciamo solo se qualcuno ce le chiede, le cose che non sappiamo di sapere, le cose che non pensiamo che sia utile dire in quel momento.
Quando Alessandro dice “spetta al medico scoprire cosa ho” sta dicendo più o meno questo: è il medico che deve guidare l’indagine, che deve dirmi cosa gli serve sapere. Se la sua esplorazione è povera, il materiale informativo che ricaverà sarà scarso e poco utilizzabile ai fini della decisione.
La medicina narrativa è dialogo
A partire da un materiale narrativo più ricco, l’impostazione del percorso decisionale richiederà un apporto attivo del medico: il colloquio narrativo è un dialogo8
in cui ciascuno dei due interlocutori porta il suo contributo e
valorizza il contributo dell’altro, intrecciando le due narrazioni
diverse.
In un percorso decisionale, il medico interverrà
- affiancando alle ipotesi del paziente le sue ipotesi cliniche ( tu hai pensato a un’influenza, io sto pensando anche a un problema cardiaco più serio, a te è venuto in mente?)
- indicando chiaramente le opzioni fra cui decidere ( dobbiamo decidere fra andare subito in pronto o aspettare ancora)
- segnalando quali delle informazioni che il paziente gli ha dato lo portano a preferire una o l’altra opzione (adesso che mi parli di affaticamento inabituale, e di un dolore che persiste anche se solo a tratti, io preferisco che ci muoviamo in fretta)
- chiedendo al paziente se c’è qualcosa che gli rende difficile condividere la decisione che gli propone
- aiutando il paziente a trovare la motivazione per superare gli eventuali ostacoli (come faccio con i ragazzi che tornano da scuola, come faccio con il convegno di dopodomani…)
Quello che ci raccontano Renzo e Alessandro è, ad esempio, che la parola “infarto” non è mai entrata con chiarezza nel dialogo fra loro. Renzo afferma di non avere colto l’informazione sull’ipotesi “influenza” con cui probabilmente Alessandro tentava di rassicurarsi e ricacciare indietro la paura di avere, invece, un infarto. Alessandro afferma di non ricordare che l’ipotesi diagnostica “infarto” sia stata esplicitata dal medico, e di essere rimasto sull’idea che la decisione riguardasse l’andare o no in pronto soccorso per una diagnosi più approfondita, ma senza urgenza: la parola che fa paura, la parola che suona minacciosa, ha potuto essere respinta e non è stata utilizzata nella decisione finale.
Il risultato è stato una sorta di collusione sulla “non gravità” della situazione , che accompagnerà Alessandro anche quando finalmente arriverà in pronto soccorso, e gli farà assegnare un “codice verde” che lo costringerà a ore di attesa in condizioni sempre peggiori.
Il senno di poi
Alessandro avrà un lungo percorso di ospedalizzazione a seguito delle conseguenze di quell’infarto. Renzo conclude il suo racconto così: “Alla dimissione la diagnosi è infarto miocardico con arrivo tardivo ad evoluzione ipocinetica. Non vengo colpevolizzato dall’amico paziente. Al suo ritorno a casa vado a trovarlo e leggendo la lettera di dimissione riesco a dire soltanto sono molto arrabbiato per quanto è successo (ma non dico con chi), e lui mi risponde: sapessi io (ma non dice con chi)”.
La rabbia, come la depressione, è quasi sempre legata alla ricerca delle cause di quello che è accaduto: disattenzione, incompetenza, scarsa attenzione. E’ su quelle presunte cause che si concentra il pensiero colpevolizzante, del medico nei confronti di se stesso (ma come ho fatto a non vedere… a non capire… a non fare…) e del paziente nei confronti del medico.
Tuttavia, come osserva Crupi, “c’è differenza fra predire gli sviluppi futuri di una situazione e spiegare il corso di eventi già accaduti”6. Cioè, nel momento in cui si prende una decisione, gli elementi su cui ci si basa non sono gli stessi che utilizziamo a fatti avvenuti, quando è evidente che quella decisione non era quella giusta. Se, ad esempio, Alessandro avesse avuto una semplice influenza, o un disturbo di leggera entità, la decisione di evitargli il caos del pronto soccorso risulterebbe giusta e opportuna. “Questa ‘distorsione retrospettiva‘”, osserva Crupi, “non tiene conto del fatto che è possibile che una situazione si sviluppi in un modo o in un altro a dispetto delle nostre capacità, o indipendentemente da esse, e non a causa di esse”6 . Quello che possiamo dire è che, in quel momento – sulla base di informazioni “viziate” inconsapevolmente sia dalla reticenza del paziente sia dalla insufficiente esplorazione da parte del medico – la decisione di Renzo aveva una logica, così come l’accettazione di quella decisione da parte di Alessandro.
L’analisi narrativa del percorso decisionale ha una valenza molto diversa dalla ricerca degli errori che il medico può avere fatto: riflettere sull’andamento narrativo del colloquio permette di dare senso a ciò che è accaduto, e di utilizzare la riflessione su ciò che è accaduto per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che entrambi gli attori, il medico e il paziente, mettono in gioco nel momento di una decisione. Perché evitare tutti gli errori è impossibile. Ma essere più consapevoli di quello che può portare all’errore aiuta a evitarne almeno un po’.
NOTE
1 Karina Pereira Lima,PhD e altri, Association Between Physician Depressive Symptoms and Medical Errors, JAMANetworkOpen.2019;2(11)
2 Contro i medici 300.000 cause pendenti, nel 95% dei casi vengono prosciolti, La Repubblica 8 febbraio 2019.
3 Crupi, V., Gensini, G.F. e Motterlini, M. (a cura di), La dimensione cognitiva dell’errore in medicina, Franco Angeli 2006.
4 Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2012.
5 Scuola di comunicazione e counselling sistemico narrativo, www.istitutochange.it. Il gruppo è costituito dai MMG Pier Riccardo Rossi, Vittoriano Petracchini, Franco Lupano, da Vincenzo Crupi e Silvana Quadrino.
6 Vincenzo Crupi, “Errore, decisione e razionalità in medicina”, L’arco di Giano, 55 (2008).
7 Un percorso formativo sul metodo sistemico-narrativo nella comunicazione tra medico e paziente è proposto dall’Istituto CHANGE a medici e professionisti sanitari con un ciclo di 7 incontri dal titolo La parola e (è) la curache prenderà il via a il prossimo11 gennaio.
8 Silvana Quadrino, Il dialogo e la cura, Il Pensiero Scientifico 2019.
Via: Omni – Il giornale nella medicina narrativa italiano
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(Credits immagine: StockSnap via Pixabay)