Durante quest’anno abbiamo visto una continua erosione della tolleranza reciproca fra gli stati (ultimo retaggio dello spirito di collaborazione), necessaria per la convivenza pacifica e la sicurezza globale, e un rafforzamento degli atteggiamenti sciovinisti e di chiusura all’interno di comunità che vogliono essere sempre più strette e omogenee. Avvenimenti eclatanti di questi giorni sono il massiccio sostegno alla Brexit decretato dal voto inglese e il fallimento della conferenza di Madrid sul clima. Ma altri eventi, che hanno avuto meno attenzione internazionale,
riaffermano questa tendenza che appare inesorabile.
Venti di intolleranza
L’11 dicembre del 2019 la camera alta indiana ha definitivamente approvato una legge che regolarizza la posizione di immigrati da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan di varie religioni, purché non mussulmani. Sebbene la legge non riguardi direttamente gli indiani mussulmani, questa vasta minoranza si sente sempre più discriminata dall’attuale governo, che, sotto il primo ministro Narendra Modi e il ministro dell’interno Amit Shah, sta perseguendo una decisa politica a favore dell’ideologia induista, propugnata dal radicale partito Bharatiya Janata (BJP), e teme per la prossima revisione del criterio di cittadinanza. Continua intanto l’occupazione militare dello stato Jammu e Kashmir, conteso con il Pakistan.
Lo stesso 11 dicembre a L’Aia, al processo per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia intrapreso dal Gambia (per conto di 57 paesi islamici) contro il Myanmar per la persecuzione della popolazione Rohingya, è intervenuta in difesa del Myanmar Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace 1991 per la sua resistenza al regime militare birmano. Che ora difende con decisione le stesse forze armate dalle accuse di violenze e repressione, secondo lei esagerate e artificiose per malizia o ignoranza. Non ha neppure usato la parola Rohingya, aderendo al rifiuto governativo di riconoscere l’esistenza di questo gruppo etnico. Per lei si è trattato di “violenze intercomunali”, azioni contro “insorgenti e terroristi”, e un possibile – solo possibile– uso “sproporzionato della forza”, mentre il governo “cerca di sollevare la popolazione dalla povertà”. Mentre è ovvio che il Myanmar intenda difendersi dalla grave accusa, rattrista il fervore apologetico della Aung San Suu Kyi, che a suo tempo ha avuto il sostegno di tutta la comunità mondiale, e ora vuole ignorare la tragica realtà di un’intera popolazione del proprio paese.
2019, la nuova corsa agli armamenti è spaziale
Il 2019 è stato anche particolarmente generoso con l’industria militare in generale e le forze armate, che hanno avuto significativi aumenti di risorse. Ha ripreso il via una multilaterale corsa agli armamenti in tutti i settori: armi nucleari strategiche, a gittata intermedia e tattiche, armi offensive e difensive non-nucleari, sistemi militari spaziali e cibernetici, armi laser e missili ipersonici, droni anti-sommergibile, con innovazioni in tutti i sistemi di supporto. Con la creazione (20 dicembre) della nuova forza spaziale americana (la Space Force, che si affianca a esercito, marina, aeronautica e marines), lo spazio diviene esplicitamente un nuovo dominio di confronto militare.
Per contro, si sta disgregando l’architettura di controllo degli armamenti faticosamente costruita, con la dissoluzione del trattato INF (Russia e USA si sono affrettati a sviluppare missili già proibiti), il ritiro degli USA dall’accordo sul programma nucleare iraniano e la ripresa da parte dell’Iran di attività proibite, le difficoltà degli incontri preparatori della prossima conferenza di revisione del trattato di non-proliferazione, le resistenze all’universalizzazione delle convenzioni sulle armi biologiche e chimiche e del bando dei test nucleari, lo stallo dei lavori della Conferenza per il disarmo, nonché la diffidenza americana per l’estensione del New START. E il 2020 che arriva è un anno “bisesto”.
Credits immagine: UN Women Asia and the Pacific/CC Flickr