Il destino del nostro Universo è racchiuso in un numero. Una costante, per la precisione, che porta il nome dell’astronomo inglese Edwin Hubble, e che è contenuta in un’equazione nota come legge di Hubble-Lemaître. La legge, sostanzialmente, esprime la relazione tra lo spostamento verso il rosso della luce emessa dalle galassie (un fenomeno analogo a quello per cui le sirene delle ambulanze emettono un suono acuto quando si avvicinano all’osservatore e sempre più grave man mano che se ne allontanano) e la distanza delle galassie stesse; nell’equazione, la costante di Hubble indica la velocità alla quale il nostro Universo si sta espandendo, legata all’età dell’Universo stesso e alla sua evoluzione nel tempo. A dispetto del nome, tuttavia, la costante di Hubble è tutt’altro che costante, nel senso che le sue misurazioni, svolte con metodi diversi, finora non sono tutte perfettamente in accordo tra loro. Piccole discrepanze, certo, ma bastevoli a cambiare, per l’appunto, il destino dell’Universo: per certi valori della costante di Hubble il nostro cosmo andrebbe infatti incontro a un’espansione infinita; per altri, invece, l’espansione è destinata a rallentare e addirittura a invertirsi (è il cosiddetto Big Crunch) finché tutta la materia non tornerà a contrarsi in un unico punto – per poi magari innescare un nuovo Big Bang. Per questi motivi, è comprensibile come la misurazione della costante di Hubble sia uno dei problemi più importanti della cosmologia moderna: oggi un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Physical Review Letters da parte di un’équipe di scienziati dei Department of Physics and Astronomy alle University of New Mexico e University of California, Davis, mette in campo una nuova suggestiva ipotesi, secondo la quale le discrepanze nella misurazione della costante di Hubble potrebbero esistere postulando che il nostro Universo sia lo “specchio” di un altro che contiene particelle esotiche di materia oscura.
C’è “nuova fisica”? L’ipotesi rimisurando la costante di Hubble
Passato e futuro
Se tutto suona piuttosto complicato e astruso, è perché lo è. Facciamo un passo indietro e torniamo al 1929, quando l’astronomo inglese Edwin Hubble si accorse che le galassie erano in allontanamento uniforme in tutte le direzioni, formulando la legge di cui sopra. La scoperta diede di fatto origine alla cosmologia moderna, e portò a nuove ipotesi da parte di Albert Einstein sulla costante cosmologica, il cui valore, come dicevamo, è da tempo oggetto di controversie.
I metodi adottati dagli astronomi per valutare il valore della costante, fino a questo momento, sono sostanzialmente due. Il primo si serve di oggetti di luminosità nota (le cosiddette candele standard) per misurare le loro distanze e metterle in relazione con la loro velocità di allontanamento. Il secondo, invece, si basa sull’osservazione della radiazione cosmica di fondo, ossia il “residuo” del Big Bang. Questi due metodi hanno portato alla stima di due valori leggermente discordanti tra loro, ossia 73 km/s/Mpc (chilometri al secondo per megaparsec) per il primo e 67 km/s/Mpc per il secondo. Tale discrepanza è nota con il nome di tensione sulla costante di Hubble e, al momento, non esiste una teoria che la spieghi: come ha spiegato l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), “forse l’errore non è nelle misure bensì nei modelli cosmologici utilizzati per il calcolo a partire dai dati del fondo cosmico a microonde, cosa che potrebbe implicare la necessità di una cosiddetta ‘nuova fisica’: non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che, man mano che le misure sono diventate via via sempre più precise e i margini di errore si sono di conseguenza ridotti, i due valori non sono più compatibili tra loro”.
A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che negli ultimi anni sono state condotte misure anche con altri metodi, diversi da quelli descritti. Uno di questi, basato sull’osservazione delle giganti rosse (un tipo di stelle) ha portato alla stima di 69,8 km/s/Mpc; l’auspicio è che le osservazioni del nuovo super-telescopio della Nasa, il James Webb Space Telescope, aiutino una volta per tutte a sciogliere la tensione sulla costante di Hubble. Aspettando i dati del James Webb (il che potrebbe richiedere ancora qualche anno), la comunità scientifica, come anticipato più sopra, sta comunque lavorando a ipotesi alternative. L’ultima delle quali scomoda addirittura la possibilità che il nostro Universo sia lo “specchio” di un altro.
Un’ipotesi che ritorna
Cosa c’entra questo con la costante di Hubble? L’idea dell’Universo specchio è stata introdotta negli anni Novanta per affrontare un altro problema della fisica, quello dell’asimmetria materia-antimateria, ossia il fatto che, nonostante a ogni particella nota corrisponda un’analoga antiparticella (uguale in massa ma con carica elettrica opposta), la materia sia oggi molto più presente rispetto all’antimateria, nonostante la teoria del Big Bang preveda che all’inizio dell’Universo particelle e antiparticelle siano state create in misure uguali. I fisici, dunque, tentarono di spiegare il problema ipotizzando che tutta l’antimateria “in eccesso” fosse finita in un Universo specchio del nostro, con la stessa asimmetria, ma al contrario. Per varie ragioni questa ipotesi non ebbe grande fortuna, ma oggi è tornata improvvisamente agli onori della cronaca come possibile soluzione del problema della costante di Hubble: gli autori del lavoro, infatti, dicono di aver scoperto un’invarianza nei cosiddetti parametri adimensionali, una serie di numeri che fa parte delle equazioni dei modelli cosmologici. In sostanza, l’idea è che quando si “aggiustano” (o, più precisamente, si “riscalano”) i valori di questi parametri per far sì che le previsioni teoriche dei modelli cosmologiche combacino con i tassi di espansione dell’Universo misurati sperimentalmente, si ottiene un modello matematico in cui sembra emergere una sorta di “simmetria” cosmica, e in cui il valore della costante di Hubble coincide con quello misurato dalle candele standard. Il riscalamento dei parametri, almeno dal punto di vista matematico, dicono gli autori, potrebbe essere giustificato dall’esistenza di un Universo specchio che “pullula” di particelle esotiche di materia oscura, che interagiscono gravitazionalmente con la materia convenzionale. “Ci siamo molto sorpresi – hanno spiegato gli autori dello studio – “notando che modelli di Universo specchio possono spiegare molto naturalmente la simmetria che abbiamo individuato”. Rimane un (altro) problema, però: nella loro forma attuale, questi modelli falliscono nello stimare le concentrazioni di deuterio ed elio attualmente osservate nell’Universo. Ma secondo gli autori si tratta di una questione molto più semplice da risolvere rispetto a quella legata al valore della costante di Hubble. E al destino del nostro Universo.
Via: Wired.it