El Niño, il fenomeno climatico ciclico che causa il riscaldamento delle acque superficiali di alcune aree dell’Oceano Pacifico, influenzando le condizioni meteorologiche dell’intero pianeta, potrebbe presentare più frequentemente caratteristiche estreme in futuro. A suggerirlo è un modello computazionale elaborato da un gruppo di scienzati guidato da Kaustubh Thirumalai, ricercatore presso il Dipartimento di geoscienze della University of Arizona di Tucson (Stati Uniti). Il modello è stato validato attraverso l’analisi di sedimenti oceanici risalenti a migliaia di anni fa e, più nel dettaglio, prevede che gli eventi estremi di El Niño possano diventare più frequenti entro il 2050 se le emissioni di gas serra e quindi le temperature globali continueranno ad aumentare. I risultati dello studio sono pubblicati su Nature.
El Niño-Southern Oscillation
El Niño si inserisce all’interno dalla cosiddetta El Niño-Southern Oscillation (Enso), che prevede la sua ciclica alternanza con una controparte nota come La Niña (o anche El Viejo o anti-El Niño). El Niño può manifestarsi con diverse intensità e, specialmente quando si presenta nella sua forma estrema, può provocare siccità, alluvioni e ondate di calore: “El Niño è una forza della natura formidabile: induce siccità, inondazioni e incendi, sconvolgendo gli ecosistemi marini e terrestri in tutto il pianeta, con impatti pervasivi sulla società in numerosi settori”, spiega Thirumalai.
El Niño si verifica in media ogni 2-7 anni e dura tipicamente dai nove ai 12 mesi, anche se può capitare che si protragga per anni, spiegano gli esperti dell’agenzia statunitense Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration). In generale, prevedere il suo arrivo, la sua durata e la sua intensità non è semplice, ma riuscirci sarebbe di grande aiuto per poter intervenire in anticipo e arginarne così gli effetti. Soprattutto, sarebbe utile capire quali effetti potrebbe avere il cambiamento climatico in questo contesto.
Una finestra aperta sul passato
Per cercare di scoprirlo, gli autori dello studio si sono rivolti al passato, per così dire. Ossia, hanno utilizzato il Community Earth System Model – sviluppato per simulare il sistema climatico terrestre e prevedere gli scenari climatici futuri – per ricostruire virtualmente le condizioni climatiche dal periodo di massima espansione dei ghiacci verificatosi nel corso dell’ultima era glaciale (noto come Ultimo massimo glaciale, risalente a circa 20mila anni fa) a oggi.
Dopodiché, Thirumalai e colleghi hanno validato il modello sulla base di analisi chimiche condotte sui resti di minuscoli organismi marini chiamati foraminiferi. Quando i foraminiferi muoiono, le loro conchiglie finiscono sul fondale dell’oceano, a formare strati di sedimento che possono rimanere indisturbati per migliaia o milioni di anni. E questi resti sono una vera e propria finestra aperta sul passato, dato che la temperatura dell’acqua influenza la composizione chimica delle conchiglie che i foraminiferi si costruiscono mentre sono in vita. In sostanza, quello che resta dei loro gusci costituisce un’istantanea sulle condizioni oceaniche relative al momento in cui sono vissuti.
I risultati
Prendendo in esame una piccola sezione di sedimento, gli autori del presente studio hanno potuto validare i dati relativi al modello computazionale e hanno concluso che la variabilità di El Niño era significativamente inferiore durante l’Ultimo massimo glaciale rispetto ai giorni nostri. Inoltre, il modello sembra suggerire che la frequenza e l’intensità di El Niño siano collegate a fenomeni che tendono ad essere intensificati dal riscaldamento atmosferico e, quindi, che il cambiamento climatico possa aumentare la frequenza dei futuri eventi estremi di El Niño.
Via Wired.it
Crediti immagine: NASA / Unsplash
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