L’evoluzione della mente

Parole, gesti, odori, sguardi. Tutti modi di comunicare che le diverse specie animali utilizzano per organizzare la loro vita sociale, dalle formiche ai primati. E proprio la necessità di comunicazione potrebbe essere la chiave di lettura per analizzare l’evoluzione del cervello e delle forze selettive che ne hanno permesso lo sviluppo. È stato questo il tema principale del convegno “Evolution of Mind”, tenutosi alla Royal Zoological Society di Londra e organizzato dall’Associazione per lo Studio del Comportamento Animale il 2 e il 3 dicembre scorso. Un appuntamento che ha visto riuniti ricercatori di diverse discipline – dall’entomologia all’etologia passando per la psicologia infantile e comparata – che hanno dato vita ad un mosaico di interventi.

Studi, ricerche, esperienze diverse unite però da un metodo comune, come ha sottolineato Deborah M Custance dell’Università di Goldsmiths. Quello cioè di osservare ogni specie nel proprio ambiente naturale, alla ricerca delle spinte selettive che hanno agito sulla formazione delle differenti capacità. La maggiore di queste leve è, secondo gli studiosi, la necessità di comunicare: da una parte questa esigenza è tanto più evidente quanto più evoluta è la specie animale presa in considerazione, dall’altra il successo di ogni specie dipende proprio dall’abilità che i suoi esemplari hanno di comunicare fra loro. Un esempio eloquente in questo senso è quello delle formiche. A parlarne è stato Bert Holldobler dell’Università di Wuerzburg che ha illustrato come, grazie al loro ricco linguaggio, questi insetti riescono a cooperare nella ricerca del cibo, nella difesa del nido e nella demarcazione del territorio. E’ stato recentemente rivelato, infatti, che il loro linguaggio è piuttosto articolato: non utilizzano solo sostanze chimiche, ma anche vibrazioni e movimenti corporei. Un sistema di comunicazione che funziona egregiamente visto che le formiche rappresentano il 75 per cento di tutte le specie di insetti esistenti.

Tra i mammiferi, escluso l’uomo, i maestri dell’arte comunicativa sono delfini e primati: le strutture sociali complesse in cui si organizzano ruotano tutte intorno alla capacità dei singoli esemplari di trasmettere e a percepire stimoli quale rabbia, sottomissione, disponibilità ad accoppiarsi, e di farlo nei momenti appropriati. Abilità correlate con lo sviluppo del cervello e in particolare di quella zona chiamata neocorteccia, implicata negli aspetti più astratti e complessi della percezione e del comportamento. Studi recenti di anatomia comparata hanno dimostrato che e’ proprio questa parte del cervello quella che si è sviluppata maggiormente nei mammiferi che conducono vite sociali complesse. Lo dimostrano i risultati presentati da Robin Dunbar dell’Università di Liverpool che, paragonando diverse specie di primati, è riuscito a dimostrare come le dimensioni della neocorteccia siano strettamente collegate alla quantità di tempo che gli esemplari di una determinata specie passano in un contesto sociale dopo lo svezzamento.

Ma i segnali non sempre sono espliciti. Diventa quindi importante saper interpretare anche, per così dire, i cambiamenti di umore. Gli scimpanzé, per esempio, seguono istintivamente lo sguardo dei propri consimili. Ma che valore dare a questo comportamento? Proprio su questa difficile domanda si è soffermato Daniel Povinelli dell’Università del Louisiana: un animale segue lo sguardo di un compagno perché ha imparato che fissando la stessa direzione qualcosa di interessante apparirà, oppure perché capisce che il compagno sta vivendo l’esperienza di vedere qualcosa e allora si gira a guardare? La domanda non è banale. Nella seconda ipotesi, infatti, l’animale possederebbe un concetto astratto del guardare e riuscirebbe ad attribuirgli un significato. Numerosi test sono stati approntati proprio per capire quanto le diverse specie siano in grado di interpretare il comportamento dei loro simili senza comunicare direttamente. Secondo Alain Tschudin dell’Università di Cambridge, cani e scimpanzé non riescono a superare le prove, i bambini ci riescono solo dopo i tre-quattro anni, mentre i delfini non hanno difficoltà. Proprio partendo da questi test gli psicologi infantili Simon Baron-Cohen dell’Università di Cambridge e Ted Ruffman dell’Università del Sussex stanno cercando di capire l’origine dell’autismo. I bambini affetti da questa malattia, infatti, sembrano avere enormi difficoltà nel percepire lo stato d’animo dei consimili, mancando di quella che si definisce intelligenza sociale, mentre eccellono in test che riguardano la comprensione di fenomeni meccanici.

Sarebbe quindi la capacità di comprendere lo stato d’animo dei propri simili la marcia in più che ha permesso ad alcune specie di evolversi. E sarebbe questa la nuova “teoria della mente” emersa durante il convegno londinese e fortemente appoggiata da Povinelli. “La maggior parte di quei complessi comportamenti sociali che abbiamo in comune con i primati e con altri animali si sono evoluti molto tempo prima che la specie homo avesse i mezzi psicologici per interpretarli”, conclude il ricercatore americano. “Ma solo la specie umana ha sviluppato la capacità cognitiva di ragionare su tali comportamenti e questa ulteriore facoltà intellettiva servirebbe a moderare i comportamenti istintivi”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here