Il 96% della spesa globale destinata alla ricerca e all’innovazione tecnologica è concentrato, attualmente, nell’Occidente del mondo. Forti di un circolo economico virtuoso, i paesi ricchi investono grosse somme nella ricerca producendo, e vendendo, alta tecnologia. I profitti vanno, a loro volta, a finanziare l’innovazione e la formazione di professionalità qualificate.
Le economie tradizionalmente precarie tendono invece a concentrarsi sulle tecnologie di base e a imitare, a volte piratescamente, l’Occidente. E il circolo (questa volta vizioso) si chiude: la tendenza ad applicarsi su prodotti a bassa tecnologia non alza i profitti né gli standard di vita (almeno non quanto sarebbe necessario per investire nell’innovazione e nella scolarizzazione) e l’alta tecnologia rimane confinata nel Nord del mondo.
Ma qualcosa sta cambiando. Almeno a Taiwan e nella Corea del Sud (The Economist, 18 maggio 1996). I due paesi asiatici stanno puntando, ormai già da qualche anno, sull’innovazione, investendo parte del loro prodotto nazionale lordo (Pnl) nella ricerca e nello sviluppo. E i risultati si vedono. Se rapportato alla popolazione, il numero di brevetti registrati annualmente da Taiwan negli Stati Uniti è superiore a quello inglese.
Il dato è certamente confortante per gli asiatici ma comincia a preoccupare i produttori occidentali di alta tecnologia, che temono l’ingresso nel mercato dei nuovi concorrenti. Paure infondate secondo M. Chui, economista della London Busines School, che sull’argomento ha scritto un saggio (Innovation, Imitation, and Growth in a Changing World Economy, Lbs Economic Outlook, 1996). La creazione di conoscenza, sostengono Chui e i suoi collaboratori coautori dello studio, non può che provocare effetti globali positivi. La scelta asiatica di investire nell’innovazione tecnologica, infatti, aumentando i redditi e gli standard di vita in Asia mette a disposizione dei paesi occidentali nuove nicchie d’esportazione. In sostanza nuovi e più ricchi consumatori da conquistare. Investire nella ricerca e nello sviluppo produce, inoltre, un know-how che non è vincolato al prodotto ma che, diventando patrimonio comune, può essere utilizzato in altri paesi e da altre aziende produttrici per elaborare nuove idee. Magari migliori.
L’innovazione nei paesi poveri è dunque un fenomeno che manifesta le sue conseguenze soprattutto all’estero. E’ quello che gli economisti chiamano “spillover” positivo e che favorisce, piuttosto che minare, le economie più sviluppate. Un buon motivo, sembra ai i ricercatori inglesi, per promuovere e finanziare l’innovazione. Ovunque tenti di nascere.