Un poco rassicurante 50 per cento. È questo il tasso di affidabilità delle sperimentazioni animali per la validazione dei farmaci che Ian Roberts, della London School of Hygiene and Tropical Medicine, ha riscontrato nel suo ultimo studio. Pubblicata sul British Medical Journal, la ricerca ha preso in considerazione diversi studi eseguiti su animali e trial su umani. In particolare il ricercatore ha analizzato l’efficacia di corticosteroidi per il trattamento di trauma cranici e malattie dell’apparato respiratorio nei bambini, antifibrinolitici per la cura dei sanguinamenti, trombolitici e tirilazad per l’ictus e i bifosfonati per l’osteoporosi.
La prima classe di molecole si è dimostrata efficace nei modelli animali, ma non nell’essere umano. Mentre addirittura il tirilazad, efficace nelle cavie, è risultato nocivo per quei pazienti che avevano subito un ictus ischemico. I bifosfonati al contrario hanno mantenuto le promesse nel passaggio dal modello animale all’umano, così come i corticosteroidi nel caso della sindrome neonatale da distress respiratorio. C’è poi il caso degli antifibrinolitici, capaci di fermare il sanguinamento nell’essere umano, ma non adeguatamente negli animali. Insomma, circa nella metà dei casi non c’è corrispondenza fra ciò che succede nei modelli di studio e i risultati ottenuti sui pazienti.
“Si tratta di comprendere fino a che punto i modelli animali sono davvero predittivi e per quali patologie”, ha spiegato Roberts. Secondo il ricercatore, i risultati da lui raccolti dimostrano che in molti casi gli studi eseguiti sugli animali non sono accurati: pochi esemplari coinvolti, scelta di modelli non rispondenti perfettamente alla malattia umana, errori o falsificazione di alcuni dati. Contrariamente a quanto pensano alcuni scienziati “animalisti” per cui la predittività dei test animali è comunque nulla, Roberts pensa che ci siano alcune aree della ricerca farmacologica dove questo tipo di esperimenti può avere valore scientifico, ma che gli studi debbano essere meglio eseguiti.