A distanza di oltre due anni e mezzo dalla catastrofe della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, costata la vita a 11 persone e ricordata oggi come uno dei più grandi disastri ambientali della storia americana, la conta dei danni e le riflessioni sulle misure prese a contrastarli non sono finite. Dopo la multa record alla British Petroleum, ora uno studio – che verrà pubblicato nell’edizione del prossimo febbraio di Environmental Pollution – sottolinea che, paradossalmente, più che lo sversamento di petrolio (circa cinque milioni di barili) a nuocere all’ambiente potrebbe essere il metodo usato per ripulire le acque, un rimedio affatto indolore. Stando, infatti, a quanto rendono noto i ricercatori del Georgia Institute of Technology (Gatech) e della Universidad Autonoma de Aguascalientes (Uaa, Mexico) il disperdente delle chiazze di petrolio impiegato nelle operazioni di pulizia avrebbe creato un mix 52 volte più tossico del petrolio stesso.
“I disperdenti sono pre-approvati per ripulire le fuoriuscite di petrolio e sono ampiamente utilizzati durante i disastri”, ha spiegato Roberto-Rico Martinez dell’Uaa, a capo dello studio: “Ma noi abbiamo una limitata conoscenza della loro tossicità. I nostri studi indicano che l’aumento della tossicità potrebbe essere stato fortemente sottovalutato in seguito all’esplosione del pozzo Macondo”. E i risultati sono questi: mescolando del petrolio al disperdente Corexit (sostanza largamente utilizzata nel Golfo del Messico) gli scienziati hanno ricreato in laboratorio la miscela che si sarebbe venuta a creare in seguito alle operazioni di clean-up dopo gli sversamenti. E il mix è risultato essere letale, almeno per i rotiferi, microrganismi marini alla base della catena alimentare nel Golfo del Messico: induce morte negli esemplari adulti, e piccole concentrazioni sono sufficienti a impedire la schiusa delle uova.
Mentre i ricercatori del Gatech e della Uaa si interrogano se i benefici derivanti dal Corexit abbiano davvero compensato l’aumento della tossicità osservato in laboratorio, c’è invece chi azzarda un primo bilancio sul disastro della Deepwater Horizon. Ma non solo sono i danni ambientali le voci prese in considerazione: sull’edizione di Pnas di questa settimana, con uno speciale dedicato, ci si chiede cosa abbiamo imparato dalla catastrofe del Golfo del Messico e cosa abbiamo ancora da imparare per gestire potenziali situazioni del genere in futuro (che sebbene scongiurabili non si possono escludere), con uno sguardo soprattutto a come sono state diffuse le informazioni nel corso dell’emergenza.
Dall’analisi, che ha riguardato 15 paper (di cui tre nuovi), emergono dati per alcuni tratti rassicuranti, per altri meno. Per esempio, le informazioni diffuse al pubblico, scrivono da Pnas, sono state per lo più accurate, anche se in alcuni punti erano lacunose, come per esempio quello riguardante la quantità di petrolio disperso chimicamente contro quello invece dispersosi naturalmente. Il ritardo con cui vennero diffusi i tassi degli sversamenti di greggio – che avevano alimentato ipotesi di mascheramento dei dati da parte delle autorità governative – invece sarebbe stato fisiologico, dipendente dal tempo necessario ad effettuare le misure.
Accanto all’analisi degli aspetti tecnici, della gestione della situazione di emergenza ambientale, della quantità di informazioni scientifiche necessarie a guidare le azioni di messa in sicurezza, c’è soprattutto spazio per quello che il disastro della Deepwater ci ha insegnato, per la lezione che dovremmo aver imparato. Secondo il team di Jane Lubchenco, amministratrice del Noaa e a capo di uno dei paper pubblicati su Pnas, i punti cruciali da tenere in considerazione per prepararsi a eventuali disastri come questo sono questi: acquisire un’adeguata conoscenza dell’ambiente per tutte le regioni a rischio; sviluppare tecnologie adeguate per monitorare la situazione; colmare le lacune sugli effetti biologici del petrolio e di altri fattori, quali il cambiamento climatico, in grado di pesare sugli ecosistemi marini; sviluppare sistemi che identifichino rapidamente la portata del flusso nei siti petroliferi e condurre, infine, ricerche sugli effetti dei disperdenti utilizzati nella operazioni di clean-up e delle loro miscele con il petrolio. Proprio come fatto dallo studio sull’Environmental Pollution.
via Wired.it
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