Si sente dire spesso che un Iran dotato di armi nucleari indurrebbe anche i suoi vicini a seguire la medesima strada, e la Turchia, assieme all’Egitto e all’Arabia Saudita, è fra i paesi più citati in questa prospettiva. L’esperienza ha mostrato però che non si tratta affatto di un esito automatico: gli Stati che decidono di dedicare tempo e risorse a tale impresa alla fine possono anche riuscire a sviluppare armi nucleari, ma molti Stati con capacità nucleare (in grado cioè di produrre armi nucleari in breve tempo, qualora decidano di farlo) hanno invece scelto di restare militarmente non nucleari. La decisione di compiere il salto qualitativo richiede infatti sia capacità tecniche che volontà politica, e la decisione finale è lungi dall’essere banale: in questo, almeno la Turchia (fra gli Stati citati) non sembra costituire un’eccezione.
In un recente Carnegie Paper (Turkey and the bomb, febbraio 2012), Sinan Ülgen osserva innanzitutto che la Turchia – diversamente da molti altri Stati della regione – aderisce in maniera coerente a tutti i più importanti trattati sulla non proliferazione nucleare e sulle armi di distruzione di massa, e inoltre che essa è da lungo tempo membro della Nato. Per controbilanciare l’Iran, quindi, Ankara sembra piuttosto intenzionata a basarsi principalmente sul deterrente americano (la Turchia è uno dei paesi che ancora ospita armi nucleari Nato) e sul rafforzamento delle proprie forze convenzionali. Nel contempo, però, da un lato Ankara è stata molto attiva nel ridimensionare la tensione internazionale sul programma nucleare iraniano, e dall’altro – nonostante il recente incidente di Fukushima – essa sembra decisa a sviluppare un proprio programma nucleare civile.
Le relazioni turco-iraniane sono tradizionalmente improntate alla rivalità fra le loro rispettive ambizioni imperiali e religiose, e dal 1979 gli attriti fra il secolarismo del governo turco e il fondamentalismo di quello iraniano sono anche aumentati. C’è stato però un cambiamento dopo il 2003 quando da un lato i paesi occidentali hanno aperto con l’Iran la controversia sull’arricchimento dell’uranio imponendo sanzioni economiche, e dall’altro le elezioni turche sono state vinte dal partito conservatore, religioso e moderato Akp dell’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdogan che – ponendo fine a decenni di governo del partito kemalista Chp – ha inaugurato una cosiddetta politica di zero problem con i paesi confinanti: le relazioni diplomatiche turco-iraniane sono rifiorite, gli scambi commerciali sono molto aumentati (gas naturale, investimenti, turismo …) e la cooperazione contro le minacce comuni si è rafforzata. In conseguenza di questo, e pur insistendo sulla necessità di cooperare con l’Iaea e di assicurare la trasparenza delle attività nucleari, Erdogan ha appoggiato il controverso programma nucleare iraniano e le relative attività di arricchimento. Attirandosi le ire degli Usa e degli altri paesi occidentali, Ankara ha quindi proclamato pubblicamente la sua preferenza per il dialogo e la diplomazia, e conseguentemente non è stata entusiastica nell’applicare le sanzioni contro l’Iran.
Sarebbe però sbagliato concludere che la Turchia sottovaluti la prospettiva di un Iran dotato di armi nucleari. Fin dall’inizio della crisi essa – pur non sentendosi direttamente minacciata – ha ritenuto che una simile eventualità non solo metterebbe a rischio la stabilità regionale, ma porrebbe anche significativi limiti alle proprie ambizioni alterando il bilancio di potenza. Ciononostante la linea seguita per convincere l’Iran ad essere più cooperativo differisce da quella dei propri alleati. Per esempio Ankara, pur accettando le sanzioni decretate dall’Onu, rifiuta di applicare quelle americane ed europee ritenendo che queste da un lato rafforzerebbero gli intransigenti in Iran, e dall’altro interferirebbero in maniera sproporzionata con i propri interessi economici. In ogni caso la Turchia considera la richiesta occidentale che l’Iran arresti l’arricchimento come una chiara violazione dei diritti garantiti dal Tnp, ed è piuttosto preoccupata dalla possibilità che le sanzioni siano solo il preludio di un intervento militare le cui prevedibili conseguenze sono un altro serio motivo che spinge Ankara a cercare un accordo.
In questo quadro il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha giocato un importante ruolo di intermediazione, e nel maggio 2010 Iran, Brasile e Turchia hanno raggiunto un accordo per lo scambio di 1.200 kg di Leu (uranio poco arricchito) iraniano in cambio di 120 kg di combustibile per il reattore di ricerca di Tehran (uranio arricchito al 20 per cento). Ma l’annuncio è arrivato solo pochi giorni prima dell’adozione della Risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la quale si inasprivano le sanzioni contro l’Iran. D’altra parte gli Usa e i paesi europei avevano criticato l’accordo come insufficiente: per loro l’importante è sottrarre abbastanza Leu all’Iran per impedirgli di essere in grado di costruire armi nucleari troppo velocemente, mentre per la Turchia si tratta comunque di un risultato importante per ricostruire un clima di fiducia. Naturalmente Brasile e Turchia hanno votato contro la Risoluzione 1929 del Cs nella convinzione che essa contrastasse con lo spirito della loro diplomazia.
Successivamente la Turchia, confermando la propria convinzione che l’Iran abbia diritto all’arricchimento e alla tecnologia nucleare, ha continuato a giocare un ruolo di intermediazione, ma le sue relazioni con Tehran restano complesse a causa tra l’altro delle loro contrastanti posizioni sulla difesa antimissilistica. Dopo la fine dell’Urss la Turchia ha riesaminato le minacce poste dai crescenti arsenali missilistici in Medio Oriente e ha deciso di installare delle difese contro i missili balistici, anche indipendentemente dallo scudo antimissili che la Nato vuole schierare in Europa. Rispetto a quest’ultimo la Turchia ha richiesto che la sua installazione non pregiudichi i suoi rapporti con i vicini, e che quindi paesi come l’Iran e la Siria non siano specificamente individuati come minacce, ma nonostante queste cautele la decisione di ospitare i radar di quel sistema di difesa ha provocato una vivace reazione di Tehran che ha minacciato anche rappresaglie contro i siti turchi in caso di intervento militare.
Inoltre la Turchia ospita ancora nella base di Incirlik circa 90 bombe di gravità B61 simili a quelle delle basi di Ghedi e Aviano in Italia. Nonostante il proprio appoggio alla creazione di una Zona Libera da Armi Nucleari in Medio Oriente e in generale all’idea di un mondo libero da armi nucleari, il suo governo ritiene infatti che dopo la fine dell’Urss questi ordigni forniscano ancora una deterrenza minima nei confronti dei vicini, e quindi accetta tacitamente il loro mantenimento considerandole come simbolo dell’impegno Usa per la propria difesa. Inoltre, queste armi non rappresentano un tema rilevante nel dibattito interno, per cui non c’è neanche una pressione politica per la loro rimozione. D’altra parte i sostenitori della presenza di queste armi in Europa ritengono che esse abbiano giocato un ruolo nel dissuadere alcuni paesi dal dotarsi di un proprio armamento nucleare: in particolare – essi dicono – il programma nucleare iraniano, ancorché dichiaratamente civile, potrebbe catalizzare una decisione turca di dotarsi di armi nucleari qualora gli Usa ritirassero le loro bombe. Ma la Turchia non sembra corrispondere a questo schema: essa ha consistentemente negato di voler contraddire i propri impegni nel Tnp, e ha anche indicato che non si opporrebbe ad un ritiro concordato delle armi Usa oggi presenti sul suo territorio.
Ma quali sono oggi le ambizioni nucleari turche? La Turchia è uno dei 13 paesi del Medio Oriente che nel 2006 hanno espresso la loro intenzione di cominciare a sviluppare un programma nucleare civile. Le sue necessità energetiche sono state in rapida espansione in questi ultimi anni e il paese si considera particolarmente vulnerabile alle variazioni di prezzo dei combustibili importati. Per evitare questo il governo pensa a una miscela di fonti energetiche: rinnovabili, fossili, gas naturale e centrali nucleari con le quali pensa di poter produrre il 5 per cento dell’elettricità entro il 2023. Naturalmente questo influenza la sua posizione sui trasferimenti di tecnologie nucleari, compreso l’arricchimento e il riprocessamento di combustibile esaurito, e spiega perché essa si mostri particolarmente gelosa dei diritti garantiti dall’art. IV del Tnp nel perseguimento di attività nucleari pacifiche.
Finora la Turchia non ha annunciato progetti di arricchimento o riprocessamento, ma nel contempo ha lasciato aperta la possibilità che una decisione in tal senso possa essere assunta in futuro. Così, parlando dell’Iran, Erdogan ha dichiarato nel maggio 2010 che, qualora ciò si rivelasse necessario, la Turchia potrebbe installare propri impianti per l’arricchimento, anche se ormai questo non sarebbe troppo facile date le barriere stabilite negli ultimi anni contro l’accesso alle tecnologie nucleari. Il Nsg (Nuclear Suppliers Group) nel giugno 2011 ha raggiunto un accordo sulle restrizioni a tale accesso: in particolare le tecnologie critiche non possono essere trasferite a paesi che non abbiano firmato il Protocollo Addizionale con l’Iaea. Ankara ha accettato tali restrizioni ma, in quanto interessata a sviluppare tecnologie proprie, essa continua a battersi per mantenere un regime flessibile sui trasferimenti tecnologici. In particolare non accetterebbe mai regole che tengano conto del fatto che lo Stato importatore possa stimolare emulazione in altri paesi, o che esso si trovi in una regione considerata instabile.
Attualmente la Turchia non possiede le infrastrutture necessarie per arricchire l’uranio, e ancor meno sembra interessata a un programma militare, anche se è ragionevole pensare che – con tempo e risorse – fisici e ingegneri turchi sarebbero in grado di produrre armi nucleari di prima generazione se i governanti decidessero di farlo. Per il momento il programma nucleare turco si limita ad un accordo firmato nel maggio 2010 con i russi per la fornitura e messa in opera ad Akkuyu, sulla costa mediterranea, di un impianto di quattro reattori ad acqua leggera Vver da 1.200 MW installati ciascuno. I termini del contratto sono particolarmente favorevoli alla parte turca e sono motivati politicamente da una più generale collaborazione energetica russoturca che ha visto di recente la Turchia concedere l’uso delle sue acque territoriali al progetto russo South Stream (al quale è interessato anche l’Eni) per una conduttura di gas naturale dalla Russia all’Europa attraverso il Mar Nero, in competizione con l’analogo progetto europeo Nabucco che invece attraversa il territorio turco provenendo dai paesi a sud del Mar Caspio.
I reattori Vver non sono adatti a scopi di proliferazione, e inoltre la Turchia non avrà praticamente accesso al combustibile e alle tecnologie critiche. Questo e la mancanza attuale delle infrastrutture rende poco verosimile che Ankara possa dotarsi armi nucleari nel breve periodo. D’altra parte la sua storia di non proliferazione è irreprensibile: a meno di cambiamenti molto significativi, sembra difficile quindi che essa possa decidere di sviluppare clandestinamente armi nucleari. In alternativa, e sotto le garanzie della Nato, la Turchia sembra invece più interessata a rinforzare le proprie capacità convenzionali sviluppando anche una propria capacità di produzione. Durante la Guerra Fredda per fronteggiare un avversario nucleare la Turchia scelse di allearsi con gli Usa; dagli anni Novanta, per rispondere alla pressione Iraniana, Ankara ha scelto lo scudo antimissili e una politica estera conciliatoria favorendo diplomazia e cooperazione economica. Probabilmente, nel prevedibile futuro, anche di fronte a un Iran dotato di armi nucleari, la Turchia sceglierebbe ancora di basarsi sulla politica nucleare Nato e sulla diplomazia.
Credit immagine a pashazade/Flickr
Questo articlo è stato pubblicato con il titolo “Il Sultano, l’Ayatollah e la bomba” sul numero di giugno di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line.
no,non possiamo e non dobbiamo,fidarci di Erdogan. Durante la crisi diplomatica con Israele,inerente alla flottiglia per Gaza,il Premier turco,si recò frettolosamente nell’ufficio dell’ambasciatore israeliano;Ed in una vera e pacata discussione,Erdogan strappò letteralmente la bandiera israeliana.Ora questo la dice lunga sulla tenuta mentale del premier.Inoltre è un doppiogiochista,visto che mantiene le basi nato facendo pressioni all’America per amaliare i rapporti con L’fmi. nello stesso contempo intrattiene rapporti diplomatici stretti, con leader di dubbia capacità mentale.Penso seriamente che Erdogan sia una mina vagante.Ricordatevi che è pur sempre un paese islamico e loro non sanno che cos’è la democrazia.Comunque l’atomica è un’ottimo detterente, ma ormai obsoleto perchè oggi le guerre si fanno con il web.Un seplice virus, complesso può fermare una nazione intera.I paesi medioorientali nella corsa all’era nucleare sono sempre indietro rispetto all’era digitalizzata, e questo è il loro tallone d’achille. Buona continuazione