“Abbiamo trovato il vero tempio di Shiva, quello di cui parlano gli storici antichi, il sancta sanctorum dei Khmer”. A Patrizia Zolese, direttore della missione archeologica italiana in Laos promossa dalla Fondazione Lerici del Politecnico di Milano, brillano gli occhi mentre parla dell’ultima, sensazionale scoperta, annunciata nei giorni scorsi in Malesia al congresso internazionale della Indo-Pacific Prehistory Association. Una scoperta costata non poca fatica, perché si è trattato di scalare un monte alto 1416 metri interamente coperto da un’intricatissima foresta primaria che sembrava non lasciare alcun passaggio. Ma, giunti sulla cima, per gli archeologi italiani la sorpresa è stata grande: c’erano le fondamenta di un piccolo tempio e, poco più in basso, probabilmente caduti giù, un altare e un Lingam in pietra (in sanscrito, simbolo fallico) sul suo basamento.
“Nella religione indù, condivisa dai popoli Cham e Khmer che hanno abitato la regione nei primi secoli della nostra era – spiega Zolese – il Lingam era una delle rappresentazioni più diffuse di Shiva, in qualità di dio della creazione e della fertilità. E proprio a Shiva sotto forma di Lingam i Khmer erano sopra a tutto devoti”. Per questo la montagna che, pur essendo la più alta di una catena che domina la fertile pianura alluvionale del Bassac (sulla riva destra del fiume Mekong), cattura l’attenzione soprattutto per la sua stranissima cima a forma di Lingam, è stata da tempo identificata con il Lingaparvata (letteralmente, montagna del fallo di Shiva), citato in numerosissime iscrizioni sanscrite. “Inoltre – continua Zolese – per i Khmer Shiva abitava nelle montagne, e in genere i loro santuari, per sottolineare la sacralità del luogo, riproducono con l’architettura la forma di un monte. Ma il Lingaparvata è già un monte, non serviva costruirlo, e sulla sua sommità c’è il Lingam naturale. Un tempio su quella cima non poteva essere un tempio qualsiasi: era la dimora del dio”.
La scoperta getta finalmente luce su quanto affermato in un passo della cinese “Storia dei Sui” (VI secolo d.C.). Vi si narra infatti che nei pressi della capitale della regione del Chenla (antico nome del Bassac) sorgeva la montagna sacra chiamata Ling kia po p’o sulla cui cima c’era un tempio dedicato al dio P’o to li, custodito da mille soldati. Qui una volta l’anno, durante il plenilunio, il re in persona sacrificava una vittima al dio. Agli inizi del nostro secolo l’architetto Henry Parmentier (il padre degli studi sulle civiltà khmer e cham), che portò alla luce l’oramai famoso complesso monumentale khmer di Wat Phu, situato sulle pendici del monte, si convinse che era questo il tempio citato nelle cronache. Ma alcuni studiosi non accettarono completamente questa tesi: le cronache erano troppo precise, menzionavano due aspetti caratteristici della regione, una capitale e la cima della montagna. Lì dunque bisognava indagare. Purtroppo però gli avvenimenti politici che hanno travagliato tutta la regione hanno precluso per anni ogni ricerca.
E infatti la missione italiana della Fondazione Lerici lavora in Laos solo dal 1993. Da allora le scoperte archeologiche si sono susseguite a un ritmo tale da promuovere il tempestivo intervento dell’Unesco (sotto la cui egida la missione italiana ora opera) che ha messo sotto tutela un territorio di ben 400 chilometri quadrati. Grande merito degli italiani è stato l’essere andati oltre il complesso monumentale di Wat Phu per cercare che cosa vi fosse attorno e capire come e perché questa regione divenne il nucleo della formazione dello stato Khmer. Un’analisi territoriale di così vasto respiro non ha precedenti in tutto il sud-est asiatico. Con gli strumenti della Fondazione (l’unico istituto italiano che da cinquant’anni è specializzato in “remote sensing” per l’archeologia) hanno battuto a tappeto la foresta monsonica trovando i resti di una grande città sulla riva del Mekong, con molta probabilità l’antica capitale del Chenla citata nelle cronache cinesi. E’ a tutt’oggi l’unico esempio di impianto urbano così antico (V-VIII secolo) sopravvissuto integralmente nel sud-est asiatico. Poi si sono allargati alla ricerca dei villaggi limitrofi, trovando anche templi su entrambe le rive del fiume, e più lontano un’altra città fortificata, lungo la via (individuata di recente) che conduceva ad Angkor. Hanno compreso dunque come la sacralità del luogo (ma anche la fertile pianura e la prossimità al Mekong) avesse dato vita a un’area urbanizzata di enormi dimensioni, popolata ininterrottamente per quasi un millennio.
L’ultima fatica (almeno per il momento) è stata proprio la salita al Lingaparvata, che ha contribuito a chiarire anche l’organizzazione “religiosa” del territorio. “Il sacello sul monte era accessibile solo ai bramini”, racconta Zolese, “che non lo dovevano abbandonare mai. E al sovrano, in quanto dio lui stesso. Mentre i soldati nominati nelle cronache custodivano il luogo sacro, pur senza accedervi. E potevano anche controllare tutta la valle sottostante, perché dalla cima la vista spazia su tutta la piana ben oltre la linea del Mekong. Più in basso, il grande complesso templare di Wat Phu serviva per il culto dei fedeli, di tutti coloro che non avevano diritto di accesso al sancta sanctorum. Ma che della presenza del dio e di ciò che si compiva sulla cima percepivano il riflesso diretto. A partire dal grande sacrificio che il re eseguiva annualmente, e che forniva l’occasione per una grande festa, il festival di Wat Phu”. E’ questa una tradizione tuttora viva, che raccoglie ogni anno al tempio durante il plenilunio di febbraio fedeli da tutto il Laos. Anche se oggi è la statua di Buddha a campeggiare dove un tempo era il grande Lingam di Shiva.