L’impossibilità di essere normali

Cloni, cibi transgenici, vita artificiale: con il loro avanzare le frontiere della scienza disegnano scenari sorprendenti, talvolta persino inquietanti. Il confine tra naturale e artificiale non è sempre così marcato, il concetto di normalità muta di pari passo con il progresso tecnologico e ormai anche nello stesso mondo visionario e surreale della fantascienza – espressione dell’immaginario collettivo – non si parla più di robot metallici ma di strutture biologiche.

Proprio l’intreccio fra reale e immaginario è il filo rosso del nuovo “Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali” di Vincenzo Tagliasco, recentemente pubblicato da Mondadori. Nel libro, infatti, il confine fra realtà e fantasia è quasi indistinguibile e anche quello fra scienza e fantascienza non è mai ben delineato. Attraverso una classificazione quasi linneiana degli esseri artificiali, da Blade Runner alla pecora Dolly, il lettore attraversa l’immaginario della mitologia tecno-scientifica: dalla letteratura, alla produzione cinematografica fino alle ultime scoperte della bioingegneria e della genetica. A Vincenzo Tagliasco, docente di bioingegneria all’Università di Genova, abbiamo chiesto il suo punto di vista su alcune questioni sollevate dalle nuove tecnologie.

Nel suo libro c’è un capitolo dedicato al concetto di normalità. Che relazione c’è tra normalità e progresso scientifico?

“Il cosiddetto normale presenta regole di evoluzione profondamente correlate allo sviluppo tecnologico della società. Il nostro modo di imparare e di vedere è molto condizionato dagli artificialia che la società ci propone. Per esempio, il mio modo di giudicare di cinquanta anni fa è completamente diverso da quello di oggi, perché in questi anni i miei meccanismi neuronali di definizione di ciò che è normale e di ciò che non lo è sono profondamente cambiati. C’è un continuo interfacciamento tra i nostri parametri valutativi e l’evoluzione tecnologica. Ma spesso non siamo consapevoli di questo meccanismo di adeguamento che ci spinge automaticamente a giudicare normale e giusto ciò che ci viene proposto dalla scienza. Perché si tratta di un processo graduale e inconscio: siamo portati ad assimilare i modelli prevalenti veicolati dai mass media e accettiamo con altrettanta naturalezza le risorse tecnologiche messe a disposizione dalle industrie genetiche e biotecnologiche. Anche se si tratta di introdurre degli elementi di artificialità nei processi naturali”.

Per questo il confine fra artificiale e naturale si sposta fino a divenire indistinguibile?

“Non è questo il punto cruciale, perché rimane comunque sempre abbastanza chiaro cosa intendiamo per naturale e per artificiale. Il problema è un altro: stabilire ciò che è lecito e ciò che invece non è accettabile da un punto di vista etico. Ma questo rimane un problema aperto e non ci sono risposte o criteri oggettivi di valutazione. Le nuove tecnologie pongono questioni esistenziali abbastanza forti. Oggi la scienza mette a disposizione farmaci che allungano la vita, aumentano le prestazioni del corpo. Bisogna essere consapevoli del fatto che modificare gli elementi strutturali del corpo comporta delle conseguenze pesanti sulla società e più in generale sull’ambiente. E’ necessario affrontare questi problemi nella loro complessità e non solo da un punto di vista strettamente scientifico”.

Quali sviluppi tecnologici vede nel prossimo futuro?

“Ci troviamo in un momento di transizione, in cui si passa dal paradigma informatico-elettronico a quello biotecnologico e bioingegneristico. E’ importante sottolineare però che il modello che si sta imponendo nella ricerca più avanzata è reso possibile grazie agli studi e alle conquiste precedenti e che nel progresso scientifico tutto strettamente connesso. Se non ci fossero state l’informatica e le telecomunicazioni il progetto genoma umano non avrebbe avuto lo sviluppo degli ultimi anni. Ma da ora in poi gli investimenti della ricerca si concentreranno soprattutto nella biologia e in particolare sullo studio del cervello. La mia ipotesi è confortata anche dal fatto che ormai a livello di fantascienza non si parla più di robot metallici ma di strutture biologiche”.

Nel suo libro si legge che “la classificazione aiuta a rivelare obiettivi, speranze, paure e suggestioni alla base della creazione scientifica e fantascientifica”. Quali obiettivi e quali speranze alimentano le ricerche scientifiche oggi?

“Le grandi speranze che riponiamo nella tecnologia sono quelle che hanno accompagnato l’uomo dalla rivoluzione industriale in poi: l’illusione di essere più liberi, di sconfiggere le ingiustizie del censo o della genetica. E la scienza ha raggiunto traguardi importanti. Anche i più scettici nei confronti del progresso tecnologico devono riconoscere che la ricerca ha permesso di migliorare enormemente la vita delle persone. Pensiamo per esempio alla possibilità, ormai non più così remota, di intervenire sul Dna di un embrione per scongiurare l’eventualità di difetti genetici, o ai benefici dell’uso di farmaci che consentono di migliorare l’efficienza del nostro organismo”.

E quali dubbi devono accompagnare le nostre riflessioni sul progresso tecnologico?

“Su questo punto mi sono fermato molto spesso a riflettere anche con altri colleghi. E per quanto lontane siano le nostre posizioni politiche o ideologiche tutti concordiamo nel ritenere che oggi c’è la tendenza ad andare verso una società sempre più “omogeneizzata”. Questo fenomeno di omologazione culturale è una conseguenza inevitabile dell’evoluzione tecnologica: i traguardi del progresso impongono nuovi paradigmi culturali e nuovi standard qualitativi cui tutti tendiamo ad adeguarci. E’ un processo sul quale non ci soffermiamo a pensare perché è un automatismo cognitivo: siamo portati a considerare i risultati della tecnologia come nuovi e oggettivi criteri di “normalità” e di “efficienza”. Ma, allo stesso tempo, i nuovi paradigmi culturali imposti dal progresso creano una discriminazione sempre più netta fra “normalità” e “anormalità”, fra “efficiente” e “non-efficiente”. E quindi fra “vincente” e “perdente”. Questo fenomeno comporta un rischio ancora maggiore, cioè quello di alimentare, per contrasto, la naturale tendenza dell’uomo all’individualismo e alla non-omologazione. Fino alle estreme conseguenze di suscitare in alcune menti esaltate la volontà di affermare la propria presunta superiorità etnica, culturale, linguistica o religiosa. Questa, purtroppo, come sappiamo, è la causa principale dei conflitti nella nostra epoca”.

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