L’equipaggio era sceso a terra per la notte, lasciando a bordo ciò che non era necessario per la breve sosta e le mercanzie da vendere lungo il Po: vasellame di lusso, oggetti di culto, olio, vino, tronchi di bosso, lingotti di piombo. Solo il cane era rimasto di guardia al prezioso carico. E nulla poté quando il vento si alzò e le acque si ingrossarono sino a strappare gli ormeggi. Per un po’ l’imbarcazione andò alla deriva nella foce del fiume, trasportata dal vento e dalla corrente. Poi si arenò in un banco di sabbia. Disalberata e sommersa dalle onde, scomparve per sempre alla vista degli uomini.
Duemila anni dopo, nell’autunno del 1980, le ruspe scavano nel fondo di un canale del bacino di Valle Ponti, un’area a pochi chilometri da Comacchio, provincia di Ferrara, bonificata all’inizio degli anni Venti dello scorso secolo. Il lavoro procede normalmente sino a quando la pala tira fuori dei frammenti di legno. Il ricordo dell’eccezionale rinvenimento della Necropoli di Spina (1922), coi suoi ricchissimi corredi funebri è lontano. Ma è meglio non rischiare e avvertire la Soprintendenza. E quando arrivano, gli archeologi sono perentori: bisogna bloccare i lavori di dragaggio e procedere con cautela allo scavo. Potrebbe trattarsi del relitto di un’antica imbarcazione.
Il recupero della nave di Comacchio
Ci sono voluti quasi 10 anni di lavoro per riportare la nave di Comacchio, lunga 21 metri e larga circa sei, nuovamente alla luce del sole, e altri 10 per consolidare lo scafo, e ricomporre il prezioso carico. Un lavoro certosino, e non ancora concluso per quanto riguarda il relitto, portato avanti dalla Soprintendenza Archeologica dell’ Emilia e dagli esperti dell’Istituto Centrale del Restauro, il cui risultato è da qualche giorno finalmente visibile al pubblico in una degna sede: il neonato Museo della Nave Romana, a Comacchio.
Il nuovo museo
Ricavato negli ambienti di Palazzo Bellini, sede dell’Assessorato alla Cultura, il museo è un vero e proprio fiore all’occhiello per il piccolo comune del ferrarese, che vuole inserirsi nei circuiti del turismo culturale. Due gli ambienti dedicati al materiale rinvenuto nello scafo della nave di Comacchio: il primo, al piano terra, presenta gli oggetti personali dei membri dell’equipaggio e, probabilmente, di qualche occasionale passeggero: calzature, sacche e parti di giubbotti in cuoio, calamai, balsamari, pugnali, spade, ami da pesca e persino pedine e dadi da gioco. Esposti anche attrezzature e materiali necessari a governare e mantenere efficiente l’imbarcazione (cordami, bozzelli, una sassuola, chiodi, mazze, un’accetta, una pialla, un’ancora in ferro) e alla vita di bordo (piatti, bicchieri, pentole, fornelli, cestini e una stadera in bronzo per la vendita al dettaglio della merce). Il tutto incredibilmente conservato grazie all’ambiente anaerobico creato dai sedimenti depositatiti sul relitto.
Al piano superiore, invece, è messa in mostra la mercanzia. Che era di prim’ordine e destinata a una clientela piuttosto raffinata: vasellame in argilla sigillata finemente decorata, tempietti votivi in stagno. Ma il carico di maggiore entità era costituito da 102 massae plumbee di provenienza spagnola (peso complessivo 2,773 chilogrammi), da anfore per derrate alimentari di origine rodia, istriana ed apula, lucerne, mestolini, pissidi in stagno e, infine, tronchi di bosso. “Tutti questi materiali”, spiega la Soprintendente Fede Berti, “riflettono la complessità e la vivacità dei rapporti commerciali che lungo il Po si ridistribuivano all’interno della pianura padana e permettono di datare il naufragio alla fine del I sec. a.C.”.
Il relitto
Il relitto della nave di Comaccchio, conservatosi quasi interamente nella sua lunghezza, giace invece in un padiglione attiguo alle sale espositive, racchiuso in un “sarcofago” di vetroresina realizzato per le lunghe e complesse operazioni di consolidamento. Come mostra il modello ligneo esposto al museo, l’imbarcazione era pontata e dotata di un albero con vela quadra e di timoni laterali. A poppa, il ponte era maggiormente esteso e, sulla cambusa, doveva trovarsi un tetto rialzato rivestito di tegole. L’imbarcazione, a scafo piatto e arrotondato, doveva essere lunga più di 21 metri, larga 5,62 e pesare, a pieno carico, 130 tonnellate. La mancanza di una vera e propria chiglia ne faceva un’imbarcazione adatta sia alla navigazione interna che a quella costiera.
“La nave faceva parte di quella categoria di naviglio che oggi viene definita ‘minore’”, spiega la Berti, ” e, in base alla tecnica costruttiva, può essere classificato come sutilis navis e cioè nave a scafo cucito”. Ciò significa che le assi di fasciame erano, e sono ancora, tenute insieme da un sistema di legatura incrociata con corde di sparto (una graminacea molto resistente) bloccate nei loro fori da cavicchi di legno. Tra un’asse e l’altro, per impermeabilizzare lo scafo, erano inseriti pezzi di un tessuto di lana che all’interno dell’imbarcazione avvolgeva un cordolo di libro di tiglio a sua volta fissato con un cordino incrociato. In altri termini, la nave era costruita con una tecnica arcaica, destina a essere progressivamente soppiantata da quella cosiddetta a guscio portante diffusa sino al XII secolo. Ma proprio l’accurata tecnica costruttiva, oltre ai numerosi e non facilmente determinabili fattori ambientali, ha favorito una discreta conservazione delle strutture del relitto. Che presenta solo una vistosa gobba, presumibilmente conseguenza della morfologia del fondo marino ove la nave naufragò.
Entro un anno, una volta completato il trattamento conservativo, l’imbarcazione verrà isolata dall’ambiente esterno con una copertura stagna e trasparente. E così, garantite le condizioni climatiche idonee alla conservazione delle strutture lignee, sarà finalmente visibile al pubblico.