“Meglio tardi che mai” penseranno i pescatori pugliesi sfogliando l’opuscolo sul rischio bombe chimiche che il Ministero dell’Ambiente distribuirà nelle prossime settimane alle marinerie adriatiche e alle cooperative di pescatori. In tutto, una quarantina di pagine che spiegano come salvarsi la vita se con le reti, oltre ai pesci, viene su uno delle centinaia di ordigni che infestano i fondali del basso Adriatico dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per redigere il manuale ci sono voluti infatti ben cinquant’anni e 236 incidenti, di cui cinque mortali. Eppure, un po’ di tempo si poteva risparmiare: da una decina d’anni, per esempio, la commissione di Helsinki (Helcom) che riunisce i paesi con attività di pesca nel Baltico, altro mare-pattumiera per bombe a caricamento chimico, ha stilato delle linee guida per la redazione di un manuale rivolto ai pescatori. E su questo modello, volumetti del genere sono stati realizzati un po’ da tutti i paesi interessati, per esempio, la Lituania. Quello italiano dunque è un incredibile ritardo, dovuto al totale disinteresse della pubblica amministrazione, che solo quattro anni fa, dopo l’ennesimo incidente e le interpellanze di alcuni parlamentari pugliesi, ha ritenuto di dover affrontare il problema.
Autori dell’intempestivo, ma purtroppo ancora necessario, manuale italiano sono i ricercatori del l’Icram, l’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, Ezio Amato e Luigi Alcaro che tra il gennaio del 1998 e il giugno del 1999 hanno portato a termine la missione Acab (Armi chimiche affondate e benthos). La ricerca, commissionata dal Ministero dell’ambiente, per la prima volta ha fornito dati non aneddotici sulla localizzazione di almeno una parte degli ordigni chimici e convenzionali scaricati nel basso Adriatico. Sono state individuate quattro aree d’interesse, una delle quali, 10 miglia quadre a 35 miglia a nord di Molfetta, è stata esplorata con apparecchiature sofisticate, sonar a scansione laterale, profilatore di sub-superficie e magnetometri di ultima generazione. Risultato: identificati un centinaio di cosiddetti bersagli di interesse, cioè oggetti che possono essere delle bombe, sedici dei quali, osservati da vicino attraverso le telecamere subacquee, sono risultati essere ordigni a caricamento chimico con l’involucro corroso.
L’esposizione all’iprite, detto anche gas mostarda per il suo caratteristico odore, provoca vesciche e ulcere estremamente dolorose e può essere letale anche in dosi minime. Responsabile del tre per cento delle vittime della Grande guerra (1915-1918), l’iprite fu ufficialmente bandita nel 1925. Eppure durante la Seconda guerra mondiale il gas mostrarda era ancora in dotazione sia alle forze dell’Asse che all’esercito alleato. Uno degli incidenti più gravi si verificò a Bari il 2 dicembre 1943 proprio con il bombardamento di una nave americana, la John Harvey, che nascondeva a bordo 2000 bombe all’iprite. Gran parte delle munizioni esplosero e si sviluppò un’enorme nube tossica che causò la morte e il ferimento di numerose persone tra i militari e la popolazione civile.
Oggi a minacciare i pescatori pugliesi sono proprio le bombe della John Harvey rimaste inesplose. La bonifica del porto barese condotta all’indomani della guerra prevedeva infatti l’inabissamento in mare aperto degli ordigni recuperati, a profondità all’epoca non raggiungibili dalle reti da pesca, ma oggi usuali. Il famigerato mustard gas non è però l’unica sostanza pericolosa presente negli ordigni abbandonati da cinquant’anni nei fondali del Basso Adriatico. Come avverte il manuale dell’Icram, alcune bombe da aereo possono contenere composti a base di arsenico, come la lewisite, anch’essa vescicante, miscele asfissianti o cariche incendiarie.
Oltre a mettere a repentaglio la sicurezza della gente di mare, questo arsenale sommerso minaccia anche la vita marina. In effetti, poco si sa degli effetti di queste sostanze sugli organismi acquatici e, nel caso particolare, i dati di cui si dispone non sono sufficienti per trarre conclusioni definitive. Ma i segnali di preoccupazione non mancano: “Abbiamo analizzato i tessuti di alcune pesci stanziali trovando gravi anomalie e anche tenori di arsenico anomali rispetto a campioni della stessa specie prelevati nel Tirreno”, dice Amato. Anche se non è il caso di allarmare i consumatori, dunque, l’argomento meriterebbe senz’altro l’attenzione delle istituzioni.
Ma cosa si può fare? La bonifica di tratti di mare infestati di armi chimiche entro i cinquanta metri di profondità, fin dove possono arrivare i sommozzatori, è una pratica di routine espletata dalla Marina Militare. Sempre in Puglia, pochi chilometri più a Sud, tra Molfetta e Giovinazzo, per esempio, con questo sistema dal 1996 sono state recuperate decine di migliaia di munizioni, comprese armi al fosforo. Ma a maggiori profondità la bonifica non è stata mai realizzata in nessuna parte del mondo. Per questo, l’Icram ha presentato un progetto sperimentale al Ministero dell’Ambiente, che prevede in primo luogo l’individuazione di tutti gli ordigni presenti nell’area presa in considerazione. Per la bonifica vera e propria sono in ballo due opzioni: riportare in superficie gli ordigni e farli smaltire dallo Stabilimento militare materiali difesa Nbc (Nucleare, batteriologica, chimica) di Civitavecchia, l’unico centro in Italia abilitato alla dismissione dei residuati bellici caricati con agenti chimici; oppure, soluzione forse più economica e senz’altro meno rischiosa per la salute degli operatori, radunarli in una buca scavata in fondo al mare e coprirli con materiale inerte, in modo da evitare la dispersione delle sostanze chimiche nell’ambiente marino. Il progetto prevede anche l’individuazione di altre aree da bonificare e la realizzazione di una mappa nazionale anche per le armi convenzionali. Chissà se per vederlo realizzato dovremo aspettare altri cinquant’anni.
Congratulazioni Marina, anche a distanza di anni questo tuo articolo suscita la mia ammirazione per la tue capacità. Dieci anni dopo questo articolo le bombe che abbiamo rilevato sono sempre là, nemmeno indicate nelle carte nautiche. Aggiorno anche sul fatto che al progetto di ricerca ACAB sono seguiti tre approfondimenti condotti anche con ricercatori di Università e CNR e cofinanziati rispettivamente dal Ministero dell’ambiente, dalla Commissione europea e dall’UNEP/MAP che hanno portato ad accertare che i residuati bellici sia a caricamento convenzionale che speciale, rappresentano un fenomeno d’inquinamento marino non trascurabile per il Mediterraneo. Un inquinamento che peggiora con il passar del tempo a causa degli effetti della corrosione marina sugli involucri affondati decenni orsono.
Il risultato pratico cui hanno condotto queste ricerche è lo sminamento del porto di Molfetta (BA). Questa bonifica, tuttora in corso, è stata finanziata dal Ministero dell’ambiente proprio in conseguenza di quanto “scoperto”. Il finanziamento fu stanziato per la bonifica dei tanti porti pugliesi adriatici che hanno i fondali ingombri di residuati bellici ma quasi tre anni di lavori e buona parte dei fondi non sono stati ancora sufficienti per il solo porto di Molfetta.