Sono un piccolo ma agguerrito esercito che vuole la pace. Sono uno dei fronti interni con cui deve fare i conti il primo ministro israeliano Ariel Sharon. Sono i riservisti militari israeliani che si rifiutano di prestare servizio nei Territori Occupati. In patria vengono chiamati “refuseniks” e il loro numero cresce costantemente. Trovano un valido appoggio in Yesh Gvul, organizzazione pacifista israeliana, il cui nome è traducibile in “C’è un limite”, nata nel 1982 con l’intento di supportare i soldati israeliani che all’epoca si rifiutavano di combattere in Libano. Dall’inizio della nuova Intifada palestinese, nel novembre 2000, Yesh Gvul invita a dire no all’obbligo di servire militarmente Israele nella parte di terra che l’Onu ha destinato ai palestinesi dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967. Per farlo organizza azioni di sensibilizzazione alla causa, e iniziative a sostegno di coloro che hanno compiuto la scelta e si ritrovano sotto processo o in carcere. “L’obiettivo dei refuseniks è di porre fine all’occupazione israeliana e agli abusi che questa comporta sui palestinesi”, dichiara a Galileo Peretz Kidron, uno dei leader di Yesh Gvul.
Il movimento dei soldati che non vogliono prendere parte a quella che definiscono “una sporca guerra” esce allo scoperto con una lettera aperta, comparsa sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 25 gennaio 2001. Un appello firmato da 52 riservisti di ogni ordine, grado e corpo di appartenenza in cui dichiarano di non essere pacifisti tout cort, ma senza mezzi termini aggiungono che non hanno assolutamente intenzione di combattere di una guerra non necessaria. E in un’altra lettera inviata al primo ministro Ariel Sharon dichiarano di non voler essere complici di “violazioni dei diritti umani: esecuzioni senza processo, espropriazione illegale di terre, demolizioni di case, torture, blocco indiscriminato della libertà di movimento”. E in un’altra petizione, presente sul sito seruv.org, i circa 350 refuseniks firmatari, nell’argomentare le loro ragioni non risparmiano critiche anche nei confronti dei coloni israeliani, definiti “ben lontani dall’essere agnelli sacrificali. Gente che rifiuta di adattare il loro costume di vita alle condizioni di guerra in cui vive. Gente che provoca conflitti ogni volta che le acque si calmano”.
Il fenomeno dei refuseniks, sebbene non intacchi di molto la potenza militare di Israele ha grosse ripercussioni nella società israeliana e sta creando un acceso dibattito. “Uno dei contributi che portano gli obiettori è quello di dare una grossa spinta al movimento pacifista, già molto attivo”, afferma Kidron. E dà del filo da torcere sia ai mass media, che inizialmente tacevano a riguardo e ora non possono più ignorare, sia a militari e politici. “Sharon e i comandi militari hanno attuato una pesante campagna contro i refuseniks”, continua Kidron, “ma i risultati di recenti sondaggi mostrano come circa il 20 per cento degli israeliani sia d’accordo con chi rifiuta di prestare servizio nei Territori”. Ma la mano pesante del primo ministro e dei vertici militari si fa sentire: secondo Yesh Gvul, dall’inizio della seconda Intifada, sono stati messi in prigione più di 50 riservisti obiettori, di cui sei tutt’ora in carcere. L’alternativa alla sbarre è il “mental health officer”, ovvero il trattamento psicologico.
E riguardo all’incisività dell’azione dei riservisti ribelli sull’andamento del conflitto, Peretz Kudron ha pochi dubbi: “L’analogo fenomeno dei refuseniks che è si è verificato durante l’invasione del Libano nel 1982, è stato una delle maggiori cause del ritiro israeliano”. Quello che i riservisti obiettori vogliono sottolineare è che il loro rifiutarsi di combattere nei Territori non è un implicito supporto alle azioni militari palestinesi, non vogliono utilizzare i loro torti per dare spazio a quelle che definiscono pazzie israeliane: “Non si possono utilizzare gli stessi criteri morali per confrontare gli atti terroristici di Hamas con quelli di uno stato sovrano come Israele”. E continuano: “L’odio crescente dei palestinesi nei nostri confronti ha in gran parte origine dalle politiche contro le quali noi protestiamo”. E per dare forza al loro messaggio su seruv.org citano Abramo, considerato il primo obiettore di coscienza della storia nell’episodio narrato nel primo capitolo della Bibbia, la Genesi. Il patriarca che pur di impedire a Dio di impartire una punizione collettiva a Sodoma e Gomorra, una punizione che coinvolgerebbe indistintamente colpevoli e innocenti, è pronto a rischiare lui le ire del Sommo. E alla fine Abramo ebbe la meglio.