Ricercatore a Harvard a soli 26 anni, Stephen Jay Gould non si era certo seduto sugli allori. Da allora, correva l’anno 1967, a scorrerne l’elenco delle pubblicazioni, dei premi vinti, delle cariche e degli onori accademici, ci si perde. I libri a decine, gli articoli a centinaia, senza contare le traduzioni in tutto il mondo. Difficile diventa quindi, ora che è scomparso, ricostruirne il pensiero, se non seguendo quella struttura a cespuglio che tante volte lui stesso ha usato nel parlare dell’evoluzione. I risultati strettamente scientifici che gli dobbiamo sono molteplici. Si era dedicato prima a studi di paleontologia e di zoologia (sulle correlazioni nelle dimensioni degli organismi e sulle lumache terrestri delle Indie Occidentali), ma già all’inizio degli anni Settanta la sua attenzione si pone su questioni più generali.
Partendo da una nuova lettura dei dati paleontologici, nel 1972 elabora insieme al collega Niles Eldredge la teoria degli “equilibri punteggiati”: uno scossone per il darwinismo (anche per lo stile stesso dell’articolo, che addirittura citava Marx). La teoria dell’evoluzione era infatti stretta intorno al concetto di gradualismo filetico, secondo cui le specie cambiano costantemente a piccoli passi. Eldredge e Gould misero in dubbio quest’idea, sostenendo che i resti fossili mostrano numerosi casi in cui le specie attraversano lunghi periodi di stasi, di equilibrio, punteggiati da cambiamenti geologicamente rapidi.
Checché ne dicano i creazionisti cristiani di ogni marca, tale teoria non mina le basi della teoria dell’evoluzione, ma anzi ne aumenta la capacità esplicativa, andando a tappare alcune falle che il darwinismo mostrava nei riguardi della paleontologia. E infatti, dopo un periodo di scontro molto aspro, l’idea di rapidi cambiamenti speciativi è stata progressivamente integrata nel darwinismo contemporaneo, mentre proprio Gould ha sempre combattuto in prima linea contro il creazionismo.
Diversamente è andata per le ipotesi che Gould ha costruito su questo modello. Se infatti la nascita di nuove specie è legata a eventi molto circostanziati (quali piccoli cataclismi geologici), ecco che il disegno dell’evoluzione può essere deciso dal caso, dalla fortuna. Un meteorite, un’improvvisa eruzione, modificano radicalmente gli ecosistemi, creando le condizioni per una riorganizzazione generale, in cui estinzione e speciazione non possono essere addebitati solo all’essere più o meno adatti, ma anche al caso, alla contingenza: un asteroide non esercita certo pressione selettiva prima di cadere in testa ai dinosauri.
Così, la storia della vita non è a forma d’albero, ma piuttosto a cespuglio: a ogni evento (come le grandi estinzioni di massa) segue un periodo di esplosione di diversità, seguita a sua volta dalla progressiva scomparsa di numerosi rami evolutivi. La diversità si produce in un periodo relativamente breve, mentre sul lungo periodo è l’estinzione a giocare un ruolo di primo piano. In questo modo, viene demolita l’idea che sia l’Homo sapiens il prodotto necessario dell’evoluzione: siamo stati solo molto fortunati, anche se l’idea che l’evoluzione sia un processo intrinsecamente contingente ha stuzzicato più di un intelletto, dando vita a un proficuo dibattito che ha coinvolto biologi e filosofi alla stesso modo.
Il nome di Gould presso il grande pubblico è però legato soprattutto ai suoi saggi divulgativi, che per quasi 30 anni hanno raccolto le sue “riflessioni di storia naturale”. Pubblicati ininterrottamente sul magazine “Natural History” dal 1974 al 2001, questi brevi scritti hanno reso di facile comprensione la teoria dell’evoluzione, analizzandone in maniera sempre brillante i diversi aspetti. E in particolare non hanno mai taciuto i tratti ideologici e sociali che fanno da sfondo alla cosiddetta scienza ufficiale. Ne è perfetta testimonianza il capolavoro “Intelligenza e Pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo”, con cui Gould ha messo a nudo, con il mestiere di storico oltre che di naturalista, le fallacie di chi ha inteso radicare il razzismo nella diversità biologica. Un problema purtroppo non ancora risolto, tanto che nel 1996, Gould ha sentito l’esigenza di pubblicarne una seconda edizione aggiornata.Certo, c’è di che rimanere stupiti di fronte ai fantasiosi titoli di queste raccolte: “Bravo Brontosauro”, “Il Sorriso del Fenicottero”, il celebre “Pollice del Panda”.
Ma ancora di più si rimane affascinati dalla capacità che Gould aveva di legare temi lontanissimi, partendo ogni volta da piccoli indizi per arrivare al cuore dei problemi della teoria dell’evoluzione, della sua storia, della sua importanza per la biologia. Che fosse il baseball, la musica, un libro antico o un souvenir in una terra lontana, Gould prendeva ogni volta per mano il lettore e con scrittura al limite della letteratura lo guidava nei misteri più affascinanti della natura, anche umana, uno dei suoi temi preferiti. Soprattutto negli ultimi anni, infatti, Gould aveva affrontato diffuse idiosincrasie culturali (i timori legati al passaggio al nuovo millennio, il rapporto scienza-religione), in maniera anche discutibile ma sempre originale.
E ancora ci sarebbe da parlare del Museo di Zoologia Comparata di Harvard che ha diretto per anni; del suo “Ontogeny and Philogeny”, capolavoro del 1977 disperso nella sua immensa produzione, e in attesa di traduzione italiana; delle sue polemiche contro l’adattazionismo (insieme a Richard Lewontin). Lo mancanza di spazio ce lo impedisce. Lo vogliamo ricordare con le sue stesse parole, insegnamento di scienza e insieme di etica: “Noi siamo figli della storia, – chiudeva “La Vita Meravigliosa” – e dobbiamo seguire il nostro cammino in questo, che è il più diverso e interessante degli universi concepibili: un universo che è indifferente alla nostra sofferenza, e che ci offre quindi la massima libertà di avere successo, o di fallire, nella via che abbiamo scelto”.