La controversia sulle modalità di accesso ai dati della ricerca genetica di base si arricchisce di un nuovo capitolo. Stavolta a intervenire, sulla rivista britannica Nature, è uno dei protagonisti del Progetto Genoma Umano: Ari Patrinos. Il direttore dell’Office of Biological & Environmental Research del Dipartimento dell’Energia americano (Doe), lancia un vero e proprio grido di allarme: bisogna convincere le aziende private a condividere i loro dati scientifici con gli enti di ricerca pubblica. Altrimenti le università e i laboratori statali, tradizionalmente restii ad accettare vincoli all’accesso ai dati scientifici, saranno tagliati fuori da gran parte della ricerca biologica. Attualmente infatti le aziende private svolgono oltre il 60 per cento degli studi genetici. Tuttavia, secondo Patrinos, poiché la ricerca di base condotta dall’industria è proprietà intellettuale delle aziende che la fanno è necessario trovare un punto di equilibrio che permetta a tutta la ricerca di migliorarsi e alle informazioni di essere distribuite in modo uniforme e regolare.Ultimamente, con l’avvento della genetica molecolare e dello studio del genoma animale e vegetale, il concetto di proprietà privata nella ricerca è al centro della riflessione degli addetti ai lavori, siano essi scienziati, direttori di programmi di ricerca, politici o giuristi. Fino a poco tempo fa, infatti, il progresso scientifico avveniva esclusivamente all’interno dello spazio pubblico creato dagli scienziati attraverso saggi, articoli, convegni, interventi. Ora però sembrano fronteggiarsi due schieramenti abbastanza definiti: da una parte i più grandi centri di ricerca internazionali (Europa, Usa, Giappone), che respingono come atto contrario alla pratica e all’etica scientifica qualsiasi restrizione all’accesso ai dati, dall’altra alcune note aziende biotecnologiche, soprattutto americane, che preferiscono pubblicare le proprie scoperte con una quantità minima di dati, per tutelarsi dagli eventuali concorrenti e per sviluppare in proprio farmaci commerciali o terapie innovative.Patrinos e il Doe, sebbene esponenti di primo piano del “fronte pubblico”, si muovono da tempo sul terreno della mediazione. Le proposte in questo senso sono essenzialmente due, entrambe raccolte nell’intervento pubblicato da Nature: proprietà privata dei risultati “a tempo” o allargamento della possibilità per i ricercatori di utilizzare i dati coperti da brevetto. La prima proposta prevede un periodo di tempo definito, scaduto il quale i dati degli articoli pubblicati sulle riviste diventano di pubblico dominio, qualsiasi sia il limite di accesso stabilito dai ricercatori privati e dalla rivista in questione al momento della pubblicazione. La seconda proposta consiste nell’allargamento e in una migliore definizione, anche giuridica, di un diritto già acquisito. Attualmente i ricercatori universitari non hanno limiti nella ricerca su dati proprietari o brevettati, purché il loro utilizzo sia per la sola ricerca di base e senza fini di lucro. Questa clausola ha permesso per esempio di continuare a ricercare in tutto il mondo le cause del carcinoma alla mammella, anche se i geni a esso collegati sono brevettati (il caso più noto è quello del gene Brca1, la cui sequenza è stata brevettata dall’azienda privata Myriad Genetics già nel 1994). Questo diritto però attualmente non ha uno statuto ben definito ed è quindi necessario, secondo Patrinos, stabilirlo meglio.Ma queste proposte non sono prive di debolezze. Sempre più spesso, infatti, i professori universitari e i responsabili dei laboratori pubblici più importanti hanno incarichi di consulenza, finanziamenti o sponsorizzazioni dalle aziende private. La realtà dei finanziamenti scientifici statunitensi è oggi molto complessa e ogni distinzione pubblico-privato diventa di anno in anno più sfumata. Altra perplessità, diffusa da tempo nella comunità scientifica, riguarda la “volatilità” dei dati genetici. Come afferma anche Patrinos nel suo articolo, grazie allo sviluppo tecnologico e scientifico l’utilità dei dati biologici in sé è limitata nel tempo. Nuovi sviluppi e ricerche o comparazioni più raffinate, rendono rapidamente meno importante una scoperta poco tempo prima ritenuta fondamentale. I dubbi degli scienziati che utilizzano in concreto i dati contenuti negli archivi genetici sono in crescita. Da più parti si rilevano “buchi” e imprecisioni nella sequenza genetica contenuta negli archivi, spesso tanto gravi da renderla di fatto inutilizzabile nella ricerca dei laboratori, qualsiasi essi siano.