Quando la ricerca è global

Realizzare progetti di ricerca, formazione e gestione delle risorse. In collaborazione con atenei stranieri e tenendo conto delle esigenze del Paese con cui si coopera. E’ lo scopo degli accordi bilaterali che collegano numerose università italiane a dipartimenti e centri di studio sparsi in tutto il mondo. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato siglato alla fine del giugno scorso tra l’università di Roma “La Sapienza” e quella di Nairobi. Lo scopo è quello di creare un laboratorio di scienze ambientali per il monitoraggio dell’ecosistema marino e la gestione delle risorse idriche del Kenya. “Per ora è solo un memorandum d’intesa tra i due rettori”, spiega Carlo Ulivieri, responsabile italiano dell’accordo e docente presso il dipartimento di ingegneria aerospaziale e astronautica dell’università romana, “finalizzato alla formazione di studenti italiani e africani in numerosi settori: nelle scienze marine e in quelle spaziali, nella chimica e nel controllo della qualità delle acque, nello sviluppo e nella gestione del turismo, nella conservazione e nel restauro urbano”. “Le collaborazioni”, va avanti Ulivieri, “potranno attuarsi mediante uno scambio di visite di studenti post-laurea, di informazioni, dati, documenti e pubblicazioni scientifiche. Come pure mediante lo sviluppo di programmi di ricerca comune e l’organizzazione di workshop e seminari”. La scelta dell’università keniana come partner non stupisce: “Un precedente accordo intergovernativo promuove dal 1964 le attività del Centro di Ricerca Progetto San Marco (Crpsm) di Malindi. Un’iniziativa che ha permesso a molti ricercatori keniani di conseguire una laurea in Italia e di lavorare presso lo stesso Crpsm”.Master, corsi e specializzazioni nei Paesi occidentali infatti non bastano se non sono associati a un’azione sul campo. “Sarebbe un errore gravissimo limitarsi a far studiare le persone in Italia e poi rimandarle nelle loro realtà dove non ci sono mezzi né laboratori”, afferma Bruno Marangoni, docente di colture arboree all’università di Bologna e responsabile dell’accordo stipulato tra questa e lo Swaminathan Research Foundation in India. “Ecco perché il nostro progetto prevede che i ragazzi studino nel loro Paese e vengano in Italia al massimo per la tesi”. La convenzione, firmata nel 1995 e rinnovata lo scorso anno, si propone la valorizzazione delle risorse ambientali, lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e il miglioramento della qualità di vita delle popolazioni locali. Oltre allo scambio dei ricercatori, quindi, l’intesa prevede un lavoro al fianco delle comunità rurali del sud del Paese. “Dove tentiamo di migliorare la gestione della coltivazione delle piante, in particolare del riso, e di istruire in tal senso le donne, principali addette al lavoro agricolo”. Gli ostacoli non mancano e l’attesa di risultati concreti si prospetta lunga. “Bisogna avere pazienza e rispettare le tradizioni e le abitudini dei locali”, continua Marangoni. “Laddove sono radicate religioni di tipo giansenista, i prodotti della terra vengono rifiutati poiché la loro estirpazione farebbe morire innumerevoli insetti. Sarebbe perciò inutile coltivare patate. A ciò si aggiunga l’uso pesante dei fertilizzanti promosso dal governo e il fatto che spesso non possiamo conoscere i risultati ottenuti, perché coloro che lavorano nelle università, appartenenti alle caste alte, non comunicano con chi lavora nei campi, facenti parte delle classi povere”. Difficoltà diverse, ma non minori, si incontrano in Albania, dove lo stesso ateneo bolognese ha siglato con l’università di Tirana un progetto per la ricostruzione dell’intero sistema agricolo. “Manca tutto: l’Albania importa l’80 per cento dei cereali che mangia, non ci sono mezzi di trasporto e, anche se la preparazione teorica dei tecnici è buona, non c’è la possibilità di operare. Il nostro scopo è perciò lasciare qualcosa di dimostrativo, impiantare in altre parole un centro di sperimentazione agricolo. Ma la strada è lunga: occorrono finanziamenti mirati e stabilità politica”.Se ci si sposta, infine, all’università di Bari si scopre che nell’ateneo pugliese si lavora a un progetto con l’Università Statale Lomonosov di Mosca. “Dal 1998”, racconta Michele Maggiore, del dipartimento di geologia e geofisica dell’ università di Bari, “studiosi italiani e russi di varie discipline sviluppano ricerche in comune nel campo geologico, idrogeologico, geochimico ed ecotossicologico. L’intento è quello di discutere congiuntamente delle metodologie messe a punto nei due Paesi nel campo della gestione e della protezione delle risorse idriche. Ne deriva la possibilità di avvalersi di un notevole bagaglio di conoscenze, acquisite dai ricercatori di entrambi i Paesi”.

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