Incidenti d’auto, elettrosmog, mucca pazza, bioterrorismo. Nelle società moderne, il rischio sembra essere sempre dietro l’angolo. Ma cosa dobbiamo temere di più: le sigarette o il telefono cellulare? Il manzo inglese o la Sars? Per rispondere a queste domande, il “Journal of the Royal Statistical Society” ha chiesto ad alcuni epidemiologi e matematici inglesi di fare il punto sui pericoli che minacciano la nostra vita quotidiana. Ma limitandosi all’approccio statistico, gli esperti corrono a loro volta un rischio: far credere che sia soltanto una questione di numeri. E’ certamente utile sapere che, in tutto il mondo, dal 1975 a oggi il bioterrorismo ha fatto solo sette morti e la mucca pazza ha ucciso un centinaio di persone, mentre ogni anno, soltanto in Italia, sono almeno 7.000 le vittime dell’alcool e addirittura 90.000 quelle del tabagismo. Ma se l’approccio statistico è irrinunciabile per comprendere le dimensioni dei diversi fenomeni, non basta invece per spiegare come mai alcuni rischi riescono a modificare le nostre abitudini e altri no.Quando nei primi mesi del 2001 la mucca pazza terrorizzava gli italiani, Umberto Veronesi, allora ministro della Sanità, non perdeva occasione per ripetere che la probabilità di ammalarsi era bassissima: “Una su un milione, la stessa probabilità di contrarre il cancro ai polmoni fumando una sola sigaretta in tutta la vita”. Se fosse solo una questione di numeri, Veronesi sarebbe riuscito a convincere gli italiani a rimettere piede nelle macellerie. Ma le cose non sono andate così, e la ragione non è che gli italiani non capiscono le statistiche.L’idea che esista una netta distinzione fra un “rischio reale” e il “rischio percepito” dalla gente comune, distorto da una cattiva comprensione dei fatti scientifici, risale ai primi anni Settanta quando i sostenitori del nucleare, nel tentativo di spiegarsi la propria impopolarità, ipotizzarono che il motivo fosse un tragico “deficit culturale” che affligge il pubblico. Per lungo tempo si è pensato – e molti continuano a farlo – che per eliminare avversioni e paure irrazionali bastasse mostrare alla gente, sulla base di un calcolo, quanto improbabile potesse essere un incidente. “Ma a parte il fatto che esistono fenomeni così complessi da presentare caratteri di irriducibile incertezza piuttosto che di rischio calcolabile” – osserva la sociologa Bruna De Marchi nel saggio “Il rischio ambientale” – “la gente comune costruisce i propri giudizi attraverso percorsi interpretativi che sono certamente distinti da quelli degli esperti, ma che non per questo possono essere etichettati come irrazionali”. Ne sono un esempio la volontarietà o meno dell’esposizione al rischio, o la capacità di gestire un’eventuale situazione di crisi: ammalarsi di mucca pazza è certamente meno probabile che sviluppare un tumore al polmone, ma le conseguenze di un’epidemia sarebbero catastrofiche e colpirebbero anche chi, per anni, è stato esposto al rischio senza saperlo. In altre parole, non è tanto una questione di numeri, quanto una questione di accettabilità. Invocare la scarsissima probabilità che un evento si verifichi non funziona non tanto perché la gente non capisce le somme, quanto piuttosto perché dal calcolo del rischio sono stati esclusi altri elementi che il pubblico considera importanti. Come scrive l’antropologa inglese Mary Douglas: “Un rischio non è soltanto la probabilità che un evento si verifichi, ma anche la grandezza delle sue conseguenze, e tutto dipende dal valore che si attribuisce alle conseguenze, valore che si fonda su questioni politiche, estetiche e morali”. Per questo la gestione del rischio non può essere affidata esclusivamente alle analisi quantitative dei tecnici: è un problema di governance che impone una continua negoziazione fra le parti e fra i saperi, siano essi saperi “esperti” o “profani”.