Nel trentunesimo capitolo de Le Comte de Monte-Cristo l’aristocratico parigino Franz de Quesnel, barone d’Epinay, ospite del protagonista nel suo rifugio sull’isoletta selvaggia, viene da questi iniziato alle delizie dell’hashish (1). Di tali delizie Alexandre Dumas fornisce – ovviamente per esperienza personale – una minuziosa descrizione che non tenteremo qui di parafrasare o di riassumere. Va piuttosto notato come questo resoconto (edito per la prima volta nel 1844-46) della prima esperienza di droga di un neofita, sotto la guida di un maestro in tutti i sensi navigato – Edmond Dantès/Monte-Cristo, lo sanno pure i sassi, prima del suo “incidente di percorso” era stato un brillante giovane ufficiale della marina mercantile – batta di parecchie lunghezze non solo molte altre descrizioni letterarie, ma anche più di un trattato scientifico. Colpisce, per esempio, il modo in cui il maestro istruisce il discepolo sullo sviluppo graduale degli effetti della droga attraverso le esperienze successive, ponendogli retoriche quanto significative domande che oggi definiremmo pertinenti alla fisiologia e alla psicologia delle risposte edoniche ([…]la prima volta avete voi amato le ostriche, il tè, i tartufi […] tutte cose che avete in seguito adorato?»). Inoltre è ovvio il ruolo primario attribuito ai fattori ambientali, estetici e altri – il lusso orientale degli arredi del rifugio; la raffinata cena prima dell’assunzione della sostanza; il giaciglio odoroso dove D’Epinay è invitato a stendersi dopo la botta di droga; eccetera eccetera – i quali concorrono in modo determinante alla qualità dell’esperienza. E infine è assai interessante il resoconto del risveglio in pieno benessere, dopo il lungo dormiveglia psichedelico segnato da forti valenze edoniche, sessuali e altre, e il successivo sonno ristoratore.
Il tema delle droghe benefiche, accanto a quello dei farmaci onnipotenti, a quello dei micidiali veleni e infine a quello dei miracolosi antidoti, ritorna a più riprese nella stessa opera-fiume di Dumas. Per esempio, nel quarantesimo capitolo Dantès/Monte- Cristo, in veste di anfitrione in una delle sue magioni a Parigi e dintorni, vanta ai suoi ospiti le virtù di certe specialissime pillole che lui stesso confeziona mescolando oppio di Canton e hashish della mitica Mesopotamia. Queste pillole – da notare anche qui l’enfasi sul fattore estetico – egli le tiene a portata di mano, per ogni evenienza, in una meravigliosa bomboniera scavata in un grosso smeraldo, uno tra i tanti preziosi del tesoro raccattato dopo l’evasione, secondo le istruzioni del compagno di sventure abate Faria.
Le gerarchie di importanza
Lo spazio sin qui sacrificato alle prodezze dell’onnisciente e onnipotente supereroe di Dumas non è certo per fare la réclame all’una o all’altra sostanza, ma serve piuttosto a sottolineare alcuni aspetti importanti della questione droga e del suo rapporto col farmaco. La qualità della sostanza ha indubbiamente il suo peso: infatti le droghe che Monte-Cristo maneggia sono fra i migliori prodotti naturali semilavorati, scelti tra quelli messi a punto attraverso secoli di esperienza di raffinate culture; e non droghe brutali, come oggi l’eroina o la cocaina o uno dei tanti amfetaminici lavorati in laboratori clandestini e poi malamente tagliati nei successivi passaggi del mercato criminale (prodotti di confronto cronologicamente adeguati sarebbero gli alcolici di più bassa qualità destinati ai poveracci). Ma di gran lunga più importante è tutto quello che oggi va sotto i termini set e setting (2): il primo, per indicare le caratteristiche del soggetto con il suo vissuto, compreso il suo status socioeconomico e culturale (e qui Dumas gestisce abilmente i contrasti, contrapponendo ai personaggi di status più elevato le disavventure, i misfatti e la orrenda fine del miserabile ubriacone Caderousse); il secondo, per precisare le caratteristiche e le influenze del contesto in cui si svolge il percorso verso la droga e dentro la droga, compreso il rapporto tra “docente” (saggio amico o puscher?) e “discente”. Insomma, tutto ciò che alla fin fine determina se sarà il soggetto a servirsi della droga, ottimizzandone i benefici psicologici e minimizzandone i danni; o se viceversa sarà la droga ad assumere il dominio sul soggetto sino ad annientarlo, come oggi spesso accade a molti degli assuntori a più basso peso contrattuale, schiacciati tra l’incudine di un mercato criminale e il martello delle politiche proibizioniste. Ma su tali aspetti non è necessario dilungarsi, trattandosi oramai di luoghi comuni, tra l’altro, continuamente rievocati dai vari media (sia pure a modo loro) allorquando trattano con quattro paia di guanti i problemi di droga di personaggi dell’ establishment, che qui ci asterremo prudentemente dal chiamare per nome, o quando tornano sull’ennesima replica del solito fattaccio, come il massacro a Roma del passante che rifiutava l’obolo ai due tossici; o quando perdono la faccia con qualche fantastica gaffe, come quella del linciaggio del “mostro” spacciatore tunisino, precipitevolissimevolmente incriminato per la strage di Erba; infine, quando si sforzano di stimolare la curiosità morbosa del colto e dell’inclita con qualche “novità” atta a vivacizzare la cronaca (tra gli esempi recenti: gli edili che si imbottiscono di coca per sopportare la fatica e lo stress; il record da Guinness della modella dominicana, che per un cachet di 4.000 dollari trangugia la bellezza di un chilo e duecento di purissima coca, qualcosa come 20.000 dosi dopo i vari passaggi e tagli).
Larga parte della letteratura scientifica, e a ruota i media, in buona o in malafede, concorrono a stravolgere le gerarchie di importanza dei vari fattori che si disputano la palla sul campo della droga, puntando i riflettori sulle sostanze opportunamente demonizzate a spese del setting. Come ha scritto di recente don Andrea Gallo in un intervento sul quotidiano Liberazione (7 dicembre 2006, p. 12), in base alla sua pluridecennale esperienza nella comunità genovese di S. Benedetto al Porto, «lottare contro la tossicodipendenza partendo dal prodotto conduce ai fantasmi, proietta sotto una veste scientifica un’informazione terroristica e di colpevolizzazione».
Le varie discipline scientifiche hanno contribuito, ciascuna secondo la propria specifica vocazione (e secondo i propri specifici interessi corporativi ed economici), a tale stravolgimento (3). Per primi i moralisti e i criminologi, veri e propri mastini in travestimenti filantropici a guardia di un ordine classista, hanno fornito e volta per volta aggiornato gli strumenti per il varo e per l’applicazione delle politiche proibizioniste repressive e punitive. Qualche tempo dopo sono entrati in scena farmacologi, medici e psichiatri, che apparentemente condannando tali politiche hanno vigorosamente proposto un modello medico della tossicodipendenza che è risultato altrettanto demonizzante e penalizzante. Per esempio, in una recente recensione di un libro sulla biologia cellulare delle tossicodipendenze, pubblicata sul peraltro eccellente New England Journal of Medicine [1], l’autore si spinge sino a definire la tossicodipendenza «cancro del comportamento », un cancro con le sue brave metastasi «che infiltrano tutto il repertorio comportamentale»; infine conclude che le conseguenze negative dell’assunzione di sostanze sono addirittura più gravi di quelle dei tumori più maligni, una versione medica moderna dell’antica posizione dei moralisti più spietati (“meglio morto che peccatore”). A parte il fatto che il modello medico è stato spesso altrettanto repressivo e punitivo quanto quelli ai quali intendeva sostituirsi: per esempio, il famigerato lager per il ricovero coatto dei drogati istituito in piena grande depressione a Lexington (Kentucky) ebbe nel 1935 come primo direttore proprio quel Lawrence Kolb che negli anni Venti aveva inventato sei fantasiose categorie psichiatriche per classificare i tossici.
Qui, ovviamente, non si vuole negare che i problemi medici siano spesso importanti, o addirittura dominanti, in una parte consistente dei tossicodipendenti incalliti. Si vuole piuttosto ribadire che fatti salvi una minoranza dei casi in cui i soggetti sembrano imboccare un percorso di droga a causa di una preesistente patologia fisica o psichica, il problema medico non è alla radice del fenomeno. Il tossicodipendente, in estrema sintesi, per lo più diventa un ammalato di competenza medica attraverso l’interazione tra due tipi di fattori. Il primo ha a che fare con il suo profilo di soggetto debole che viene catturato dal mercato criminale, dominato dalla droga e massacrato dalle caratteristiche fortemente patogene della droga illecita di strada e dalle relative modalità di assunzione (aghi infetti; vari tipi di cocktail micidiali con alcolici e psicofarmaci; ecc.). Il secondo insieme di fattori riguarda le alterazioni fisiologiche e psicologiche provocate dalle esposizioni ripetute a dosi consistenti di droghe pesanti: cioè l’instaurarsi di automatismi nel controllo del comportamento (non ci compete di avventurarci nelle corrispondenti alterazioni del sistema nervoso), con il progressivo venir meno delle caratteristiche gratificanti dell’esperienza di droga, quindi con il prevalere di fenomeni di compulsività (l’urgenza di “farsi”) derivanti dalla necessità di far fronte alla dipendenza fisiologica e/o psicologica. Per definizione – e non solo in termini matematico-statistici – la messa in evidenza di una interazione non consente di stabilire una gerarchia di importanza tra i fattori interagenti (in questo caso, quelli sociologici e antropologici e quelli biologici e psicologico-individuali): ma se appena appena si guardano i dati sulle carcerazioni, le malattie gravi e le morti da droga non si può non constatare come gli habitués della tribuna numerata abbiano probabilità assai più elevate dei disperati della curva di evitare o minimizzare gli effetti perversi delle alterazioni fisiologiche e psicologiche, o almeno di porvi rimedio dopo che essi si sono instaurati. Insomma, come hanno scritto venticinque anni or sono una sociologa, Delia Frigessi Castelnuovo, e uno psichiatra, Michele Risso, «il progresso della medicina è lento e difficile. Ciò è detto senza ironia. Tanto più lento e difficile quanto più questa disciplina riceve ed accoglie la delega di interpretare fenomeni che con esssa non hanno a che fare se non per le apparenze dei loro stati conclusivi. Il problema della ingiustizia, della miseria, della violenza, percorre la storia. La medicina coglie i segni che ‘le competono’ e ne fa talvolta – nel rispetto ossequioso dei paradigmi – capitoli non gloriosi, ma consistenti, della sua storia» [2].
Quando più tardi entrano in scena i sociologi, e in particolare quelli della onnipotente scuola di Chicago, criticando aspramente sia le politiche repressive e punitive ispirate da moralisti e criminologi, sia le mistificazioni medico-farmacologico-psichiatriche, essi finiscono per approdare a schemi non meno subordinati alla ideologia dominante, alle scelte politiche mirate al controllo individuale e sociale dei soggetti e delle classi subordinati e potenzialmente “pericolosi”: cioè di fatto prescrivono a questi l’adattamento a una realtà per loro drammaticamente negativa, piuttosto che attaccare i poteri forti in quanto responsabili di tale realtà.
L’entrata in scena degli psicofarmaci
Dagli anni Cinquanta lo sviluppo dei nuovi psicofarmaci – prima i neurolettici, poi gli antidepressivi, infine i tranquillanti “minori” o ansiolitici – è andato creando nuove possibilità di sfruttamento dell’enfasi sui prodotti – per usare l’espressione di don Gallo – al fine di prendere due bei piccioni con la classica fava. Ciò avviene attraverso lo sfruttamento delle presunte proprietà benefiche di uno psicofarmaco “buono”, che cura i matti da legare e placa le ansie accese dal logorio della vita moderna, per meglio demonizzare una droga indiscriminatamente “cattiva”. Sulle forzature che hanno caratterizzato la più che cinquantennale promozione degli psicofarmaci di uso medico-psichiatrico esiste una letteratura sterminata, anche se assai poco efficace nel modificare sia le condotte di medici e psichiatri, sia la domanda espressa dai pazienti e dai circostanti, famigliari e altri (4). E prima di tornare ai problemi della droga appare opportuna una digressione su tali forzature, che sono sostanzialmente di due tipi tra loro simmetrici: cioè da un lato l’esaltazione oltre ogni ragionevole limite scientifico delle virtù terapeutiche dei vari prodotti, dall’altro la minimizzazione degli effetti collaterali dannosi. Si arriva così a una grossolana falsificazione del rapporto beneficio/ rischio, che è quello che più conta nella valutazione di qualsiasi atto medico [5]. Nel caso dei neurolettici, per esempio, per decenni si è andato sostenendo che essi costituiscono una vera e propria cura delle psicosi – come gli antibiotici nelle infezioni dossier/scienza e politica delle droghe o come l’insulina nel diabete – attraverso un’azione specifica sulle cause e sui meccanismi della malattia (5), mentre essi svolgono soltanto un’azione di contenimento di una parte dei sintomi, come alla fin fine si è dovuto obtorto collo riconoscere. In parallelo, si sono fortemente scontati gli effetti collaterali dei farmaci, in particolare quei danni del sistema extrapiramidale che producono gravi disturbi del controllo dei movimenti, sia reversibili che alla lunga irreversibili, anche dopo la sospensione dei trattamenti (discinesie tardive). Sulla base di questa duplice falsificazione si sono insistentemente raccomandati, decennio dopo decennio, trattamenti prolungati con dosaggi spesso elevati, onde prevenire – si diceva e spesso tuttora si dice – le recidive dopo lo smorzamento delle crisi acute. Il numero di soggetti danneggiati e la gravità dei danni sono stati tali che un noto psichiatra, l’americano Peter Breggin, scrivendo per una rivista non sospetta di estremismo luddista, ha potuto affermare qualche anno fa: «Mai prima d’ora nella storia la professione psichiatrica e medica ha dovuto confrontarsi con una catastrofe iatrogena di proporzioni paragonabili a quella dell’epidemia di discinesia tardiva, di deficit cognitivi e di demenza tardiva ed atrofia cerebrale prodotti dai neurolettici» [8]. E non di rado, potremmo aggiungere, erano proprio gli stessi psichiatri e farmacologi a spaccare il capello in quattro per documentare “scientificamente” una nocività della cannabis, come per esempio è accaduto da noi con il parere dato nel 2003 dal Consiglio Superiore di Sanità.
Ma questo era solo l’inizio. Infatti la scarsa efficacia terapeutica e l’elevata nocività dei neurolettici delle prime generazioni – soprattutto derivati fenotiazinici come la clorpromazina (Largactil) e derivati butirrofenonici come l’aloperidolo (Serenase) – da un certo punto in poi sono state messe a buon frutto per promuovere la loro sostituzione con prodotti di generazioni successive assai più costosi e redditizi, come il risperidone (Risperdal) e l’olanzapina (Zyprexa). A tale scopo l’industria farmaceutica è andata finanziando numerosi studi programmati in modo da predeterminare i risultati mediante vari artifizi, onde “dimostrare” una maggiore efficacia e una minore nocività dei nuovi prodotti rispetto ai vecchi. Ben presto gli psichiatri di tutto il mondo, come un sol uomo o quasi, adottarono i nuovi neurolettici (cosiddetti atipici), facendo lievitare di parecchi ordini di grandezza la spesa farmaceutica e così mettendo in gravi difficoltà le finanze soprattutto dei servizi pubblici (6).
Ma alla fine i nodi sono arrivati al pettine, cioè le analisi più accurate condotte da ricercatori indipendenti hanno evidenziato in tempi più recenti che le differenze di cui si è detto erano in larga parte artefatti dovuti a errori metodologici, non si sa bene quanto intenzionali o meno (7). Ed è recentissima la pubblicazione dei risultati di un ampio studio condotto dall’Istituto Nazionale per la Salute Mentale degli Stati Uniti, mirato al confronto tra vari neurolettici sia classici che atipici secondo un criterio diverso da quelli convenzionali, un criterio assai più vicino alle esigenze dei pazienti piuttosto che a quelle dei curanti: cioè la misura di quanto tempo trascorre tra l’inizio di una terapia neurolettica e la sua sospensione per un qualsiasi motivo. Il risultato: entro i 18 mesi dalla instaurazione, circa il 65 per cento delle terapie vengono interrotte per scarsa efficacia e/o eccessiva gravità degli effetti collaterali, con piccole differenze scarsamente significative tra i vari prodotti sia classici sia atipici [11, 12]. Come se non bastasse si è aggiunta la constatazione che se i prodotti vecchi causavano danni neurologici e psichici devastanti, oltre a indurre nei pazienti stati persistenti di grave malessere (e forse anche a favorire la cronicizzazione della malattia mentale), quelli nuovi producono invece guasti metabolici importanti, come l’obesità, il diabete, i disturbi del metabolismo lipidico. Tali guasti da un lato peggiorano notevolmente, agli occhi dei circostanti, l’immagine di soggetti già pesantemente stigmatizzati – per esempio, in uno degli studi già citati si parla di famigliari che chiedono la sospensione della terapia di ragazzi diventati impresentabili per obesità, specificando che preferiscono veder ricomparire la sintomatologia psicotica pur di veder regredire i gravi danni di immagine che impediscono la socializzazione –; dall’altro sono suscettibili di accorciare di parecchio la durata di vita dei pazienti, come mostrano le statistiche sempre più preoccupanti sulla accresciuta morbilità e mortalità che accompagna i disturbi in questione [13].
Infine un’altra conseguenza negativa dell’impiego eccessivo e comunque improprio dei neurolettici è l’ostacolo che si crea all’impiego limitato e oculato dei prodotti da parte di una minoranza degli operatori dei servizi di salute mentale. Questi hanno imparato a servirsi della riduzione farmacologica dei sintomi più disturbanti per facilitare l’avvio sia di misure non farmacologiche di cura che di misure di sostegno atte a traghettare il paziente attraverso le innumerevoli difficoltà che incontra nella sua vita quotidiana: cioè di interventi che oltre a meglio rispondere alle esigenze degli ammalati e dei circostanti (come è stato documentato da studi sul grado di soddisfazione dell’utenza), consentono di massimizzare le probabilità di recupero e di ritorno a una vita di qualità accettabile, anche quando non si realizza una vera e propria guarigione clinica. Ma spesso questi operatori sono stigmatizzati e ostracizzati da autorevoli colleghi che li trattano come si tratterebbe un medico ignorante il quale sbaglia nel maneggiare un antibiotico di fronte a un’infezione grave, o un qualsiasi altro farmaco di prima necessità di fronte a una qualsiasi patologia organica.
Qui deve fermarsi la nostra digressione sulle mistificazioni riguardanti gli psicofarmaci, anche se parecchio si potrebbe aggiungere estendendo il discorso agli antidepressivi e agli ansiolitici (anche questi, sono stati oggetto di rettifiche altrettanto puntuali e autorevoli quanto quelle sui neurolettici), per ridiscendere dal farmaco-paradiso alla droga-inferno, cioè alle demonizzazioni di cui le droghe sono state bersaglio negli ultimi decenni.
La demonizzazione
La storia recente delle disparità di trattamento, sotto il profilo sia scientifico che pratico, tra farmaci di uso medico-psichiatrico e droghe illecite è costellata di episodi tanto significativi quanto spesso incredibilmente squallidi (8). Questa storia si può rapidamente ricapitolare a partire dalla conferenza dell’ONU che portò alla Convenzione di Vienna del 1971, conferenza caratterizzata da un frenetico lobbying da parte dei rappresentanti dei paesi sviluppati, sedi delle più importanti multinazionali farmaceutiche, ai danni dei paesi in via di sviluppo, produttori di sostanze naturali. Ciò portò tra l’altro alla pesante condanna della cannabis – quella condanna che ancora oggi viene usata dai proibizionisti di tutto l’orbe terracqueo come “limite invalicabile” verso le modifiche di normative – mentre si concordavano controlli all’acqua di rose per i nuovi ansiolitici e ipnotico-sedativi (soprattutto derivati benzodiazepinici). Così questi prodotti poterono iniziare la loro irresistibile ascesa anche nei paesi dove la loro diffusione era stata sino ad allora relativamente limitata, compresa l’Italia, creando milioni di farmacodipendenti in tutto il mondo.
Qualche anno più tardi, quando in Italia si trattò di compilare le tabelle previste dalla legge 1975/685, seguirono decisioni spesso ancora più gravi (e scientificamente più infondate) delle nostre autorità, in questo “confortate” dal consenso della stragrande maggioranza degli “esperti” nelle varie sedi, anche se contro un parere dell’Istituto Superiore di Sanità (prontamente cestinato). In parallelo, si era scatenato nei riguardi di tecnici e politici un frenetico lobbying di medici, psichiatri e farmacologi più o meno direttamente legati all’industria farmaceutica, compresa almeno una Società sedicente scientifica di cui per carità di patria omettiamo la denominazione; un lobbying mirante alla minimizzazione dei controlli sui farmaci di uso medico e psichiatrico, in particolare gli ipnotico-sedativi e ansiolitici benzodiazepinici delle nuove generazioni.
E questo era soltanto l’inizio, al quale seguirà la caccia alle streghe orchestrata da Bettino Craxi, sino al varo della legge Jervolino- Vassalli con le sue crescenti demonizzazioni della droga e con l’escalation delle condanne penali. E dopo i vari stop-and-go negli anni successivi, si giungerà a quella legge Fini-Giovanardi, approvata come “codicillo” di un decreto-legge sulle Olimpiadi invernali, la quale prevede la carcerazione universale e nella quale ogni criterio scientifico è definitivamente travolto con l’assimilazione di tutte le droghe in un’unica tabella.
Il cerchio si chiude
A questo punto, prima di chiudere, torniamo per un momento al farmaco, per chiederci: ma che c’azzeccano gli sviluppi cui si è appena accennato con gli interessi dei produttori e prescrittori di farmaci, con l’esercizio dei poteri della corporazione medica? C’azzeccano, eccome: per esempio, un recente intervento editoriale sul prestigioso New England Journal of Medicine ha espresso vive e documentate preoccupazioni per il passaggio in massa di adolescenti americani dal consumo di droghe illecite suscettibili di provocare disavventure penali – per lo più cannabis, a dosi e con frequenze di assunzione a nocività praticamente zero – al consumo di farmaci leciti in vario modo procurati, anche senza un diretto intervento medico o psichiatrico – per lo più sedativi “pesanti”, oppiacei, psicostimolanti amfetaminici, tutte sostanze cento e mille volte più rischiose della cannabis [14].
Il cerchio a questo punto si chiude; e così, senza ulteriori commenti, deve chiudersi questo intervento, prima di poter sapere se, come e quando saranno mantenuti gli impegni in materia di droga nel programma di governo del centro-sinistra: impegni sui quali, come si è visto ultimamente con la levata di scudi contro il decreto Turco sulla cannabis, gravano le ipoteche delle forti componenti proibizioniste nello schieramento di maggioranza.
NOTE
(1) Delle varie edizioni successive di quest’opera, quella alla quale qui ci si riferisce è la ristampa 2005, nella collana Folio-classique, dell’edizione derivata dalla Bibliothèque de la Pléiade (editore Gallimard, Paris), 1981 (per testo e note), 1998 (per l’ottima introduzione di Jean-Yves Tadié).
(2) Su questo argomento vi sono trattazioni classiche come quella di ZINBERG N., Drug, Set, and Setting: The Basis for Controlled Intoxicant Use, Yale University Press, New Haven (Conn., USA), 1984, e lavori più recenti come quello di EDWARDS G., Matters of Substance: Drugs – and why Everyone’s a User, Thomas Dunne Books, New York, 2005. Una trattazione più sintetica ma efficace si trova in due articoli pubblicati su Fuoriluogo/ Il Manifesto, di COHEN P., «La sostanza non è tutto», 29 ottobre 2004, p. 11, e «Questione di setting», del 26 novembre 2004, p. 12.
(3) Una analisi di questi sviluppi si trova in ACKER C. J., Creating the American Junkie – Addiction Research in the Classic Era of Narcotic Control, The Johns Hopkins University Press, Baltimore & London, 2002. I brevi cenni che qui seguono sono ripresi dalla mia recensione: «Scienziati senza gloria», Fuoriluogo/Il Manifesto, del 27 febbraio 2004, p. 11.
(4) Gli operatori, in particolare, sono spesso presi tra l’incudine di una domanda alla quale non sono in grado di dare risposte appropriate, ma solo risposte preformate (come le prescrizioni di analisi e farmaci), e il martello di una promozione che non è solo quella diretta dell’industria farmaceutica, ma anche quella indiretta dei molti accademici e apicali ospedalieri legati all’industria stessa. Questi, infatti, sia nelle ricerche cliniche che servono al lancio e alla successiva promozione dei vari articoli, farmaceutici e altri (e che sono spesso programmate in modo da predeterminare i risultati – vedi più oltre gli esempi riguardanti gli psicofarmaci), sia nell’insegnamento ai vari livelli, nei convegni medicoscientifici e nelle iniziative di formazione continua (ECM), spesso operano in conflitto di interessi. Si vedano a riguardo le opere recenti di Marco Bobbio [3] e di Marcia Angell [4] (ex direttrice del New England Journal of Medicine che ha lasciato l’incarico a seguito di un insanabile disaccordo con la proprietà della prestigiosa rivista – l’associazione medica del Massachusetts – la quale per esigenze economiche non poteva accettare regole più restrittive in materia di pubblicità farmaceutica e di conflitti di interesse degli autori).
(5) Una trattazione documentata e assai rigorosa delle forzature sui rapporti tra presunti meccanismi etiopatogenetici dei disturbi mentali e presunti meccanismi d’azione degli psicofarmaci si trova nel testo di Valenstein [6]. Il lettore italiano troverà una trattazione chiara e più sintetica di tale argomento, assieme ad altri riguardanti le analisi scientifiche sulla malattia mentale, nel libro di Di Paola [7].
(6) Su questi giochi di product substitution vi è una letteratura infinita. Per mostrare quanto essi siano antichi posso rinviare a un mio articolo di quasi trent’anni fa, riguardante la condanna scientifica degli ipnoticosedativi e tranquillanti di precedenti generazioni che all’epoca servì per la promozione di prodotti più recenti (soprattutto benzodiazepine) [9].
(7) Articoli e rassegne su questo argomento sono oramai numerosi e illustrano tra l’altro sia le differenze, a parità di sede di pubblicazione, tra i risultati di ricerche finanziate dall’industria e quelli di ricerche condotte da parti indipendenti (costantemente meno favorevoli), sia i modi di selezione dei dati da pubblicare o da presentare alle autorità sanitarie per la registrazione, scartando quelli meno favorevoli. Per brevità citiamo solo quello di J. Geddes e altri [10] che è uno degli studi che ha avuto maggiore risonanza.
(8) I cenni che seguono sono una sintesi di una serie di miei articoli nel periodo in cui ho seguito più da vicino tali vicende (anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), apparsi su Fuoriluogo/Il Manifesto del 25 gennaio 2002: «Le ragioni della scienza e gli interessi forti», p. 12; «Droghe e poteri forti», del 22 febbraio 2002, p. 12; «L’alba del metadone», 29 marzo 2002, p. 12; «Il senso della cura», 26 aprile 2002, p. 12.
BIBLIOGRAFIA
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