Filosofia network

    Prima dividi, poi riunisci. Se l’Italia vuole essere competitiva sul mercato internazionale, una ricetta valida per qualsiasi campo della ricerca applicata è quella di creare un network di strutture altamente specializzate che mettano a disposizione, l’una delle altre, le proprie competenze. È l’idea portata avanti da Giovanni Gaviraghi, medico e chimico, ora amministratore delegato di Siena Biotech, l’azienda fondata dal Duemila dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci. Galileo lo ha incontrato in occasione della manifestazione “La danza delle Molecole” che si è tenuta dal 4 al 6 aprile scorso nella città del Palio.

    Dottor Gaviraghi, in cosa consiste il vostro lavoro?

    Per dirla con parole molto semplici, partiamo dal “guasto” e andiamo alla ricerca del “pezzo di ricambio”: se sappiamo che una certa malattia danneggia una proteina dei neuroni, cerchiamo di capire quale molecola può ripristinare la condizione normale. Il Centro ha un database con le informazioni su 12 milioni di molecole, e oltre 60mila sono fisicamente disponibili per i saggi farmacologici. Attraverso uno screening virtuale al computer, noi cerchiamo di capire quale molecola potrebbe funzionare, cioè essere attiva in un determinato sito del cervello e a un determinato punto dell’“ingranaggio” che, a causa della malattia, non “gira” più come dovrebbe. Una volta individuate le molecole che interagiscono con la proteina target, le sintetizziamo se non sono disponibili o ci rivolgiamo ai laboratori e alle aziende che le producono. Poi si passa allo screening farmacologico reale.

    Quanto tempo occorre per ottenere molecole che, almeno in teoria, potrebbero “funzionare”?

    Circa due-tre anni per arrivare a uno o a due candidati. Una volta ottenuta la molecola attiva tentiamo di capire se può diventare un farmaco e, in caso positivo, cominciano tutte le procedure di sviluppo preclinico e clinico previste dalle agenzie regolatorie. Quando invece il bersaglio farmacologico non è noto, seguiamo un procedimento chiamato ‘screening fenotipico’  che rileva un cambiamento delle proprietà delle cellule a seguito della interazione con nuove molecole. In questo modo si seleziona la molecola che funziona, anche se a questo punto non possiamo ancora capire perché, visto che non conosciamo il bersaglio su cui agisce. È il contrario di quello che si fa di solito e l’idea è trovare un punto di incontro.

    Che non esiste?

    In Italia questa è una questione critica: non c’è la cultura della sinergia e manca un sistema di trasferimento tecnologico. Per noi la cosa più importante è selezionare la molecola giusta, che ha tutte le caratteristiche necessarie per essere ‘sviluppabile’ e ‘industrializzabile’ e, quindi, portata al paziente. Per fare questo è necessario disporre di una piattaforma di ‘drug discovery’, in cui più tecnologie avanzate vengono integrate, e alte competenze scientifiche e tecnologiche. Siena Biotech è riuscita in poco tempo a dotarsi di una piattaforma di livello internazionale e di elevata efficienza.

    E le altre aziende?

    Questo tipo di piattaforme esistono nelle grandi multinazionali, ma raramente sono presenti nelle piccole e medie aziende italiane. E questa è una grande limitazione per il successo: se il business di un’azienda si basa su un solo prodotto o su una singola tecnologia è a rischio.

    Una limitazione è anche quella finanziaria. Come si può fare per aggirare l’ostacolo?

    Lavorando in un network esteso che permetta alle piccole aziende l’accesso a tecnologie e conoscenze di proprietà di altri. Un modo di operare che trova la sua naturale espressione nei parchi scientifici e tecnologici, dove le società biotech lavorano gomito a gomito. I parchi a loro volta dovrebbero essere consorziati e formare i cosiddetti ‘metacluster’ che dovrebbero possedere tutte le tecnologie necessarie per sviluppare i risultati della ricerca. Ma questo modo di pensare è estraneo all’Italia e molte iniziative nascono isolate e sottodimensionate, quindi destinate al fallimento dopo aver consumato inutilmente risorse.

    Questo significa privatizzare la ricerca?

    Non necessariamente. Chi ha fatto sempre e solo ricerca di base non ha idea di come si facciano altri tipi di ricerca o di come una scoperta valida possa diventare un prodotto. Si deve certamente continuare a fare ricerca di base, che è la premessa essenziale per capire i meccanismi che sottendono alle malattie e al giusto modo di combatterle, ma il trasferimento tecnologico, per essere efficiente, ha bisogno di competenze industriali che sappiano gestire e organizzare le diverse potenzialità. Per essere competitivi a livello mondiale bisogna avere le conoscenze, le piattaforme e i soldi: per sviluppare una sola molecola occorrono anni, competenze, infrastrutture e un miliardo di euro. Oggi la ricerca non si può più fare nel sottoscala.

    Cosa auspica quindi?

    Che non si pensi solo a duplicare gli investimenti e le tecnologie, ma piuttosto a combinare le competenze. Creare parchi scientifici monotematici, tagliati sul territorio e su un particolare tecnologia o area terapeutica. Poi creare dei network in modo che le competenze dei vari centri siano a disposizione di tutti. Pensiamo all’energia: in Italia si potrebbe costruire un parco scientifico che integri tutti i diversi approcci e creare così un’immensa sinergia. Lo stesso vale per la ricerca farmaceutica: abbiamo 12mila iscritti alle facoltà di biotecnologie, ma dove vanno a finire se non esistono sbocchi?

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