“Se volete leggere le ultime ricerche del mio laboratorio, accomodatevi, siete miei ospiti”. Sono le parole scelte da Stephen Curry, docente di biologia strutturale all’Imperial College di Londra, per aprire un articolo pubblicato da New Scientist. Parla di open access, cioè della possibilità, per chiunque, di accedere liberamente e gratuitamente alle ricerche pubblicate sulle riviste scientifiche. Il la per intonare l’argomento lo dà il Finch Report, un’analisi di costi, benefici e implicazioni di un eventuale passaggio al modello di pubblicazione open access, commissionata dal governo inglese e resa nota un paio di giorni fa. La conclusione è che “gli studi, soprattutto quelli finanziati con soldi pubblici, dovrebbero essere disponibili gratuitamente per chiunque voglia leggerli, perché questo porta vantaggi, anche economici”. Che possa essere una delle strade da percorrere per uscire dalla crisi economica europea, di cui discuteranno i leader del Vecchio Continente giovedì 28 e venerdì 29 giugno?
Il motivo sta nel circolo virtuoso che si instaura. Si promuove la trasparenza dei dati, il coinvolgimento della società, l’innovazione (con benefici per i servizi pubblici e la crescita economica), e intanto si aumenta l’efficienza stessa del sistema – dal momento che una maggiore quantità di informazioni diviene sempre disponibile e condivisibile – e i ritorni degli investimenti pubblici.
Sono passati circa quattro mesi da quando alcuni ricercatori, capeggiati dal matematico inglese William Timothy Gowers, hanno scatenato una sommossa online contro Elsevier (tra i maggiori editori di riviste scientifiche) e le sue politiche sui prezzi. Circa un anno fa, però, David Willetts, il ministro britannico delle università e della scienza, aveva già messo in piedi un gruppo di lavoro indipendente per capire come aumentare l’accesso alle ricerche con peer review (revisione tra pari). Il team è stato guidato da Dame Janet Finch dell’Università di Manchester.
Il sistema di peer review è quello su cui si basa oggi tutto il mondo della scienza. Funziona così: quando i ricercatori sottopongono il loro studio a una rivista per la pubblicazione, questa chiede l’opinione e il vaglio di pari, cioè di altri scienziati esperti nel medesimo campo di indagine. Il processo può essere lungo ma, se i risultati vengono giudicati corretti e supportati da prove valide, la ricerca viene pubblicata. Il punto è: chi paga tutto questo lavoro di revisione e quello editoriale per garantire qualità e affidabilità? A oggi, la maggior parte delle riviste chiede il dazio ai lettori – scienziati, università, biblioteche, istituti. Anche per quelle ricerche finanziate con le tasse dei contribuenti.
Qualche altra rivista (circa il 10 per cento), invece, addebita i costi a chi pubblica – i ricercatori o, più spesso, gli istituti cui essi appartengono, e le fondazioni. Una tra tutte, Public Library of Science ( PloS), che dimostra come il sistema possa funzionare egregiamente. Certo, come puntualizza il rapporto Finch, è necessario che gli enti mettano da parte ogni anno circa 60 milioni di sterline (circa 74 milioni di euro) per coprire le spese di pubblicazione.
Ma questo non è il motivo per cui il passaggio al modello open access procede così lentamente. Come spiega Curry, non si possono abbandonare di colpo le riviste tradizionali perché il sistema è radicato e c’è un discorso di punteggi da fare: quelli dell’ impact factor. È una questione di prestigio, su cui si basano finanziamenti. Pubblicare, per esempio, su Nature o su Science dà molti più punti che non apparire su Microbiology (accedere a quelle due riviste, però, è anche più costoso).
Le idee per superare l’impasse non mancano. In Italia, per esempio, è all’opera, tra gli altri, il gruppo di lavoro sull’open access della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), che promuove l’adesione alla Dichiarazione di Berlino per l’accesso aperto alla letteratura scientifica. Al momento, più di 70 atenei hanno risposto alla chiamata e hanno aperto gli archivi degli studi finanziati con fondi pubblici. Sebbene lento, il cambiamento sta avvenendo. Come spiega Roberto Delle Donne, coordinatore del gruppo di lavoro AO Crui, la stessa Elsevier “consente, a determinate condizioni, il deposito ad accesso aperto dei postprint degli articoli pubblicati nelle sue riviste”.
Staremo ora a vedere cosa dirà il ministro Willetts e cosa farà l’Inghilterra. Intanto, Curry auspica persino qualcosa di più. Vorrebbe, infatti, che la condivisione delle informazioni riguardasse anche i non addetti ai lavori: gli studi dovrebbero essere scritti in un linguaggio comprensibile a chiunque. “Possiamo fare una piccola prova ora – scrive il ricercatore – Date un’occhiata al mio ultimo paper: dovrebbe riuscire a spiegarvi perché lavoriamo alla struttura delle proteine da un norovirus di un topo, e come questo potrebbe aiutarci a combattere le malattie negli esseri umani. Sono curioso di sapere cosa ne pensate”.
via wired.it
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