C’è un collegamento tra consumo di mais geneticamente modificato e insorgenza di tumore. Anzi, no. Anzi, sì. Un bel casino, insomma. Ricapitoliamo la vicenda. Agosto 2012: un’équipe di scienziati dell’università di Caen, in Normandia, diretta da Gilles-Eric Seralini, esperto di biologia molecolare, pubblica un articolo su Journal of Food and Chemical Toxycologyin cui si mostra che i ratti di laboratorio alimentati con mais NK603 sviluppano più facilmente disturbi al fegato e ai reni e tumori mammari rispetto a ratti che seguono un’alimentazione normale. L’NK603 è una varietà di mais geneticamente modificato e sviluppato dalla multinazionale Monsanto che ha la proprietà, rispetto al mais tradizionale, di essere resistente al diserbante Roundup (sempre di proprietà Monsanto). Piantando questo mais è possibile, in sostanza, irrorare i campi con il diserbante per uccidere le erbacce senza danneggiare il raccolto utile.
Uno studio-bomba, in sostanza. Che, in effetti, sollevò un vespaio, come ricorda il Guardian: “Le formulazioni Roundup e gli ogm tolleranti al roundup”, scriveva Seralini nel 2012, “dovrebbero essere considerati interferenti ormonali e la nostra valutazione del loro impatto sulla salute è assolutamente carente”. Il lavoro, comunque, suscitò subito un forte scetticismo da parte della comunità scientifica, soprattutto a causa di imperfezioni statistiche e lacune metodologiche. Il numero dei ratti coinvolti nello studio era troppo piccolo e la loro dieta era stata completamente distorta rispetto a quella naturale. Inoltre, la specie di ratti scelta per l’esperimento (gli Sprague Dawley) è altamente incline a sviluppare cancro, soprattutto in età avanzata. Dunque, secondo i critici, non era possibile saltare a conclusioni così tranchant sulla correlazione tra consumo di mais gm e insorgenza di tumore.
Le critiche, evidentemente, non erano troppo infondate: pochi mesi più tardi, l’editore annunciò il ritiro dello studio, anche perché l’équipe di Seralini non riuscì a fornire risposte convincenti alle obiezioni. Ma oggi lo scienziato è tornato alla carica, ripubblicando il lavoro su una rivista open-access,Environmental Sciences Europe, di proprietà di Springer. La novità è che stavolta tutti i dati dell’esperimento sono a disposizione di tutti “perché possano essere valutati e perché la scienza possa reclamare i propri diritti contro la pressione delle multinazionale”. In ogni caso, la sostanza non è cambiata:“Ripubblicare dati già errati in partenza”, commenta aspro Tom Sanders, professore di nutrizione e dietetica al King’s College di Londra, “non costituisce affatto redenzione. E certamente il fatto che l’articolo sia stato pubblicato su una rivista open-access non è di grande aiuto”.
Via: Wired.it
Credits immagine: Judy **/Flickr
Seralini, che aveva anche sottaciuto il suo conflitto di interessi (era stato pagato da un consorzio bio), non può più essere ammesso nella comunità scientifica. Come Wakefield.