Un logorante processo di burocratizzazione, un mutevole flusso di norme dettate da altalenanti successioni di maggioranze parlamentari e nuovi governi, un sistema irregolare di valutazione e reclutamento di nuove risorse umane: è questa la fotografia, cruda ma reale, dell’attuale situazione dell’Università e della Ricerca in Italia. L’allarme è stato lanciato recentemente in una lettera aperta indirizzata al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, a firma di quarantotto autorevoli membri dell’Accademia Nazionale dei Lincei, la più antica accademia scientifica del mondo e la massima istituzione culturale italiana. Una denuncia condivisibile, una riflessione oculata sulla necessità di arginare il potere politico italiano che, seppur intervenendo per prevenire le disfunzioni ed accelerare l’efficienza del sistema di ricerca e formazione, di fatto ne limita l’autonomia organizzativa sancita dalla Costituzione.
Una risposta inequivocabile a chi propone, ancora una volta, una riorganizzazione più “politica” che “scientifica” per la ricerca: l’unificazione dei centri di ricerca italiani, attualmente una ventina, sotto stretto controllo governativo equivarrebbe a porre un limite alla libertà di ricerca e di insegnamento. Le ragioni, in epoca di “spending review”, sarebbero di mero carattere economico: il taglio degli organi amministrativi si tradurrebbe in un vantaggioso risparmio per le casse dello Stato che, tuttavia, stando ad una prima valutazione, appare del tutto irrisorio, appena l’1 per mille della spesa degli Enti pubblici. Un controllo politico inattuabile, volto ad incanalare mediante rigide norme una realtà, quella della ricerca, che per sua stessa natura necessita di una flessibilità che tuteli il suo carattere eterogeneo. Un tradimento, più o meno consapevole, del compito stesso delle istituzioni governative, quello, cioè, di incentivare le specificità proprie di ciascun settore disciplinare, di valorizzare la diversità delle competenze, di garantire l’autogoverno e l’autodisciplina sulla base del principio di responsabilità dei ricercatori, di favorire lo scambio, libero da vincoli precettistici, delle conoscenze e la creazione di reti di collaborazione e coordinamento; assicurare, in definitiva, la possibilità di sviluppo, innovazione e competitività per il nostro Paese e di un futuro realizzabile per le nuove generazioni di ricercatori.
Ad aggravare il quadro già di per sé drammatico, infatti, proprio la condizione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani che, secondo un’indagine appena pubblicata, al termine del loro percorso di formazione avrebbero pochissime possibilità di lavorare in maniera più o meno stabile nel mondo della ricerca e prospettive di carriera praticamente nulle (cfr. Antonio Bonatesta, Andrea Claudi, Alfredo Ferrara, Peter Lewis Geti, Giuseppe Montalbano, Stefania Napoli, Giulia Pavan, Gianluca Pozza, Alessio Rotisciani, Ludovica Rossotti, Roberta Russo. Quarta indagine annuale ADI su dottorato e post-doc. Rome, 30 May 2014).
Non si può e non si deve, tuttavia, gettare la spugna. Nonostante gli scarsissimi investimenti e le sempre crescenti ed incolmabili incomprensioni tra mondo istituzionale e mondo scientifico, i numeri della ricerca in Italia fanno ben sperare. Secondo quanto emerge dal “Consolidator Grant 2013 Scheme”, il nostro Paese è al secondo posto in quanto a progetti di ricerca europei ed extraeuropei finanziati per merito dal Consiglio Europeo della Ricerca ed i nostri ricercatori sono primi al mondo per numero di articoli pubblicati e citazioni pro-capite. Numeri record, che ribadiscono, senza ombra di dubbio, il valore dei nostri centri di ricerca e dei nostri ricercatori, che è soprattutto sociale e culturale. È per salvaguardare questo valore e farlo crescere che sarebbe auspicabile un’apertura al dialogo con le istituzioni pubbliche, per cercare una rispettosa separazione di responsabilità e competenze, politiche e tecniche, che, paradossalmente, rappresenta oggi l’unica strada per ottenere un’unione di intenti.
Credits immagine: European Parliament/Flickr