“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro”. È così che un grande scrittore come Umberto Eco descriveva, in maniera magistrale, gli effetti della lettura. Adesso però anche la scienza ha qualcosa da dire: esplorando la vita interiore dei personaggi, infatti, i lettori possono formarsi idee su emozioni, motivazioni e pensieri altrui nella vita reale. La lettura, insomma, stimolerebbe fortemente la nostra empatia. È la conclusione a cui è giunto Keith Oatley, scrittore e psicologo della University of Toronto, in un’analisi pubblicata sulla rivista Trends in Cognitive Sciences.
Che ci fosse uno stretto legame tra finzione narrativa ed empatia non è un’idea nuova per la psicologia, ma finora le prove erano in gran parte aneddotiche. La situazione è cambiata grazie alla possibilità di utilizzare le moderne tecniche di imaging cerebrale che hanno consentito di indagare più a fondo gli effetti della letteratura sul nostro cervello.
Per fare un esempio, Oatley cita un recente studio in cui ad alcune persone sottoposte a risonanza magnetica funzionale è stato chiesto di immaginare degli oggetti descritti con brevi frasi, come “un tappeto blu scuro” o “una matita a strisce arancioni”. Sono bastate poche frasi di questo genere ad attivare al massimo l’ippocampo, una regione del cervello associata con l’apprendimento e la memoria. “Questo – afferma lo psicologo – sottolinea quanto sia potente la mente dei lettori. Gli scrittori non hanno bisogno di descrivere gli scenari in modo esaustivo per stimolare l’immaginazione di chi legge: hanno bisogno solo di suggerire una scena”.
Risultati del genere, sostiene Oatley, suggeriscono che la finzione narrativa, specie quella letteraria, possa stimolare una sorta di mondo sociale, promuovendo lo sviluppo di maggiore comprensione ed empatia nel lettore. Per misurare questa risposta empatica, un gruppo di ricerca guidato dallo stesso psicologo di Toronto ha fatto ricorso al test “Mind of the Eyes”, in cui ai partecipanti vengono mostrate 36 fotografie ritraenti solo gli occhi di una persona, e poi viene chiesto di scegliere tra quattro termini per descrivere ciò che quella persona stava pensando o sentendo. Lo studio ha appurato che ai partecipanti a cui era stata precedentemente assegnata la lettura di testi narrativi, corrispondevano punteggi significativamente più alti di quelli che avevano letto solo testi non narrativi. La lettura di storie e racconti, insomma, aveva aumentato la loro capacità di riconoscere le emozioni degli altri.
Si tratta, conclude lo psicologo canadese, di un nuovo campo della psicologia, un approccio che ha ancora molta strada da compiere, ma solleva già diverse domande. Anche molto importanti: qual è, ad esempio il ruolo della narrazione nell’evoluzione umana? “Quasi tutte le culture umane creano storie che, finora, sono state definite in modo piuttosto sprezzante come ‘intrattenimento’”, osserva Oatley. “Io penso che ci sia qualcosa di più importante dietro”. Secondo lo psicologo ciò che ci contraddistingue come esseri umani è la nostra capacità di stringere accordi sociali con altre persone, che non sono pre-programmati dall’istinto. “La finzione narrativa può aumentare la nostra esperienza sociale, aiutandoci a comprenderla”.
Riferimenti: Trends in Cognitive Sciences