NON SONO latte perché, per legge, solo quelli di origine animale possono essere chiamati così. Sono però bevande ricavate da cereali, come riso o avena, da legumi, come soia, o da semi, come mandorla o cocco. Dal punto di vista nutrizionale sono quindi tutt’altra cosa rispetto al latte vaccino. Ma i consumi sono in continua crescita, tanto che l’anno scorso queste bevande sono entrate a fare parte del paniere Istat.
Il motivo di questo successo è presto detto: circa il 60 per cento della popolazione adulta ritiene di essere intollerante al lattosio. E cresce anche il numero dei vegani, che non mangiano i prodotti di derivazione animale. Ma questi “latti” vegetali come si possono classificare? «A livello nutrizionale offrono diversi vantaggi, perché contengono grassi migliori rispetto a quelli del latte vaccino e apportano un buon contenuto di fibra e di vitamine del gruppo B», fa notare Enzo Spisni, docente di Fisiologia della Nutrizione all’Università di Bologna. Attenzione, però. Le loro caratteristiche nutrizionali positive non implicano che possano sostituire il latte animale. «Il latte vaccino non è solo importante per la salute delle ossa grazie al suo apporto di calcio, lattosio, proteine e fosforo, ma recenti studi hanno anche ridimensionato il suo ruolo nel provocare malattie cardiovascolari», avverte Andrea Ghiselli, presidente della Società italiana di Scienza dell’alimentazione.