Ne abbiamo già una foto, una prima immagine ottenuta dopo un lunghissimo lavoro degli scienziati nell’aprile del 2019. Eppure i buchi neri sono ancora un mistero per i fisici. Oggi due ricercatori italiani propongono una nuovo approccio per poter studiare la “macchina” alla base di questi oggetti celesti così potenti da inglobare qualsiasi cosa e non lasciar sfuggire nulla, né la materia né la luce: immaginarli come ologrammi, cioè figure bidimensionali che codificano un oggetto tridimensionale. In questo modo, infatti, sarebbe più semplice, a livello teorico, rappresentare la la complessità dei buchi neri. Gli autori della proposta, ricercatori affiliati alla Sissa di Trieste, all’Istituto nazionale di fisica nucleare e all’International Centre for Theoretical Physics (Ictp), sempre a Trieste, hanno pubblicato i risultati su Physical Review X.
Ologrammi, cosa sono
Nella realtà l’ologramma è una lastra fotografica che tramite particolari tecniche codifica in due dimensioni un’immagine tridimensionale. A differenza di una foto, però, l’immagine è ottenuta con laser capaci di creare un effetto fotografico in 3D. Francesco Benini e Paolo Milan, hanno voluto applicare questo approccio, per ora soltanto a livello teorico, anche allo studio dei buchi neri.
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Nell’articolo pubblicato su Physical Review X, i due ricercatori forniscono una prima rappresentazione teorica di come poter applicare il principio olografico allo studio dei buchi neri. Con questo principio, in pratica, si può rappresentare un oggetto complesso come un buco nero, che occupa uno spazio, dunque in 3D, come un sistema con una dimensione in meno, una superficie. Insomma, come fanno gli ologrammi.
Un espediente per aggirare il problema della gravità
Rappresentare i buchi neri come ologrammi faciliterebbe la loro descrizione. Questo perché per studiare la loro struttura, in fisica, è necessario applicare contemporaneamente la meccanica quantistica e la relatività di Einstein, due mondi separati che non possono comunicare. In questo modo, invece, è come se si bypassasse un problema, l’uso della relatività per rappresentare la gravità dei buchi neri. “Nella rappresentazione alternativa (detta appunto olografica) la gravità non compare esplicitamente”, spiega Benini. “In altre parole, il principio olografico ci permette di descrivere la gravità usando un linguaggio che non contiene la gravità. Ed evitare così frizioni con la meccanica quantistica”. In pratica, anche se sembra un controsenso, la gravità sparisce nella rappresentazione teorica, ma è ugualmente inclusa, dato che si tratta di oggetti in 3D. In qualche modo, dunque, si aggira l’ostacolo.
Gli ologrammi ci faranno capire i buchi neri?
Anche se concettualmente non è semplice da comprendere, gli scienziati pensano che usare gli ologrammi sia una strada percorribile per capire meglio come sono fatti i buchi neri. Soprattutto oggi che questi oggetti misteriosi occupano le scene scientifiche con risultati sorprendenti. Dalla scoperta delle onde gravitazionali che derivano dallo scontro di buchi neri alla prima immagine di un buco nero ottenuta dall’Event Horizon Telescope.
“Questo studio” spiegano i due scienziati “è solo il primo passo verso una comprensione più profonda di dei buchi neri e delle proprietà che li caratterizzano quando la meccanica quantistica si incrocia con la relatività generale”. In un futuro vicino, aggiungono, potremo forse mettere alla prova dell’osservazione le nostre predizioni teoriche, riguardo alla gravità quantistica, come quelle di questo studio. La gravità quantistica rientra in un campo della fisica che tenta di spiegare la gravità con i principi della meccanica quantistica, impresa ardua che è ancora soltanto un tentativo. “E questo”, concludono gli autori, “sarebbe un risultato assolutamente eccezionale”.
Riferimenti: Physical Review X
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Immagine: Gerd Altmann via Pixabay