C’è foschia negli occhi di Planck

Si addicono all’inverno le ultime rivelazioni del telescopio spaziale Planck: una mappa delle gelide nubi molecolari (a partire dall’emissione di monossido di carbonio della Via Lattea) e la conferma dell’esistenza della cosiddetta foschia galattica, insieme alle prime indiscrezioni sulla sua natura. I nuovi  risultati della sonda dell’ Agenzia Spaziale Europea sono stati presentati a Bologna in occasione del convegno internazionale Astrophysics from the radio to submillimetre – Planck and other experiments in temperature and polarization, e sono frutto di un attento lavoro di pulizia dei dati (prima del quasi pensionamento dello strumento). 

Missione principale di Planck, al lavoro dal 2005, è infatti studiare la cosiddetta radiazione cosmica di fondo, eco di un passato distante 13,7 miliardi di anni, epoca del Big Bang. Tuttavia, per poter isolare questa radiazione occorre eliminare tutti i segnali che arrivano dalle altre sorgenti di primo piano (foreground), anch’esse registrate dai sofisticati strumenti che si trovano a bordo del telescopio. Tra queste ci sono le emissioni provenienti dalle singole galassie e quelle del mezzo interstellare (Ims) all’interno della Via Lattea stessa. Il bello, però, è che questo lavoro di sottrazione di spettri di emissione lascia nelle mani degli scienziati un’enorme quantità di preziose informazioni. 

Come quelle sulla mappa delle nubi di monossido di carbonio (CO) presentata a Bologna. Una delle fonti dell’emissione di primo piano catturata è rappresentata dalle nubi molecolari, le dense e compatte regioni della galassia, piene di gas, dove hanno origine le stelle. La maggior parte del gas che le compone è freddo idrogeno molecolare (H 2, ovvero due atomi di idrogeno legati insieme), che però non emette radiazioni facilmente e non è quindi rilevabile dalle strumentazioni. Per individuare queste nubi, allora, i ricercatori hanno deciso di cercare altre emissioni: quelle emesse dal monossido di carbonio, molto più raro rispetto all’idrogeno, ma più semplice da individuare, soprattutto dagli strumenti di Planck. Il risultato di questa scelta è la prima mappa del CO presente nella galassia e, di conseguenza, delle nubi molecolari della Via Lattea

L’enorme vantaggio della mappa creata da Plank è che ci permette di trovare concentrazioni di gas molecolare dove non ci aspetteremmo”, spiega Jonathan Aumont, Institut d’Astrophysique Spatiale, Universite Paris XI (Orsay, France). Questa mappa semplificherà il lavoro dei radiotelescopi terrestri, rendendolo soprattutto più mirato. Anche questi, infatti, sono sensibili alle emissioni di CO ma possono esplorare solo porzioni limitate di cielo. Ora gli scienziati sapranno esattamente dove puntarli. 

Ma la maggior parte delle emissioni galattiche misurata da Planck non è quella delle fredde nubi quanto quella prodotta da elettroni liberi e dalla polvere presente nell’Ims.Nel primo caso ce ne sono due diversi tipi – emissione di sincrotroni e radiazione di frenamento, obremsstrahlung – entrambe molto intense alle frequenze più basse. L’emissione della polvere, invece, è  più intensa nello spettro dell’infrarosso, individuato dai canali ad alta frequenza del telescopio. 

A disturbare l’intercettazione della radiazione cosmica di fondo vi poi una quarta emissione, sempre intercettata da Planck, chiamata emissione anomala di microonde. Sono tutte e quattro semplici da identificare, perché  presentano spettri abbastanza diversi. 

C’è un però: non sono sufficienti a spiegare tutte le emissioni galattiche. Ciò che resta è quello che gli scienziati hanno soprannominato galactic haze: una sorta foschia che circonda il centro galattico, individuata con certezza grazie al Lfi, lo strumento italiano di Planck, e di cui già le osservazioni del telescopio Fermi della Nasa avevano fatto supporre l’esistenza. 

Resta incerta l’origine di questa emissione. “ I dati che presentiamo alla conferenza mostrano che si tratta di un’emissione di sincrotroni, ma diversa da quella standard vista in altre aree della Via Lattea”, spiega Krzysztof M. Gorski del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) di Pasadena (Usa) e dell’Università di Varsavia (Polonia). In particolare, questa emissione ha uno spettro più duro:  spostandosi verso energie maggiori e quindi frequenze più alte, la sua intensità non diminuisce drasticamente, come avviene di solito. Ora gli scienziati sono a lavoro per capire il perché di questa differenza e le ipotesi sono ancora le più disparate: dalla maggiore frequenza di esplosione di supernovae al vento galattico, fino all’annichilazione di particelle di materia oscura.  

via wired.it

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