Un tono di voce piatto e monotono, con pause più lunghe tra frasi e parole: già in passato alcuni studi hanno mostrato come il modo in cui parliamo può essere associato alla presenza di disturbi come la depressione e il disturbo post-traumatico da stress. Un gruppo di scienziati della University of Southern California ha ideato e realizzato uno strumento in grado di analizzare questi segnali della voce per aiutare i medici a diagnosticare con più accuratezza questi disturbi, che possono presentarsi in modi assai diversi e con sintomi differenti, difficili quindi da quantificare e identificare.
Il sistema, chiamato SimSensei e descritto in uno studio pubblicato su IEEE Transactions on Affective Computing, utilizza un algoritmo che gli permette di trovare i suoni, in particolare di vocali, associati con la depressione. Analizzando la frequenza dei suoni, fornisce un rapporto al medico che può così ottenere una diagnosi più accurata.
L’algoritmo su cui si basa SimSensei è stato sviluppato nel 1967 e si chiama k-means: è in grado di raggruppare un gran numero di dati in base al loro valore medio – questi possono successivamente essere confrontati con i valori di riferimento, in questo caso con la voce di persone non affette dal disturbo.
I ricercatori hanno testato SimSensei su 253 volontari, a cui era anche chiesto di completare un questionario: dai risultati sono emerse similitudini nella frequenza della voce dei soggetti dai cui questionari emergevano sintomi di depressione o disturbo post-traumatico.
Ma lo strumento potrebbe anche avere altri usi: è già stato utilizzato, ad esempio come parte di un programma di training per i colloqui di lavoro, mirato a preparare i veterani a una vita fuori dall’esercito, per analizzare il modo in cui parlano e si esprimono, e le loro abilità discorsive.
I ricercatori vogliono si stanno ora occupando di studiare se l’algoritmo può essere adattato per diagnosticare disturbi come la schizofrenia e il morbo di Parkinson, come già suggerito in passato.
Riferimenti: IEEE Transactions on Affective Computing