Andrea Capocci
Il brevetto
Ediesse Editore 2012, pp. 172, euro 12,00
Esistono idee che con il tempo tendono a diventare totem, dogmi. Per contestarne alcune ci vuole coraggio, soprattutto quando è su di esse che si basano forti interessi economici e politici. “Il brevetto”, di Andrea Capocci, si occupa proprio di uno di questi dogmi: il concetto di proprietà intellettuale, che poi – a seconda dei casi – viene declinato in strumenti legislativi come i brevetti o il copyright.
L’autore si propone un obiettivo ambizioso: mostrare che il ragionamento di senso comune su cui si basa la proprietà intellettuale è tutt’altro che scontato. Il pensiero classico afferma che essa è sì un male – perché produce un monopolio – ma un male necessario, perché altrimenti mancherebbero gli incentivi per produrre ricerca e innovazione. Chi sosterrebbe lo sforzo necessario per creare qualcosa di nuovo, sapendo che potrebbe essere copiato impunemente? Posta così, la questione sembra quasi una banalità: dov’è allora l’inghippo?
Capocci (e con lui un numero crescente di studiosi, fra cui economisti come Michele Boldrin) ricorda però che spesso i ragionamenti basati sull’intuito possono essere affascinanti quanto sbagliati. Se infatti si va a ricostruire la storia di questo strumento, si scoprono tanti dettagli interessanti che – come minimo – possono portarci a riconsiderare il nostro giudizio.
Alcuni degli esempi portati sono vicini, vicinissimi, e ci consentono di riflettere anche sul declino del nostro Paese. Capocci spiega che “l’industria farmaceutica italiana, fino agli anni settanta, era fra le maggiori al mondo per la produzione di farmaci generici: il declino è cominciato proprio quando, nel 1979, l’Italia ha dovuto adeguare la propria legislazione sui brevetti ai livelli internazionali”. E questo non vale solo per noi: “molte potenze tecnologiche odierne – si legge – Stati Uniti e Cina in testa, hanno costruito le loro fiorenti industrie attuali anche grazie alla violazione della proprietà intellettuale altrui”.
Si tratta forse di un furto? E cosa ne è delle ricompense per chi innova? In realtà l’idea davvero anti-intuitiva – e per questo più interessante – è che anche solo arrivare per primi consente agli inventori di venire compensati in maniera adeguata per il proprio lavoro. Il caso del software open source – aperto, copiabile a volontà e di grande successo – ne è uno degli esempi più evidenti.
L’imposizione di un monopolio legale, al contrario, può avere effetti controproducenti e rallentare l’innovazione: esso, in un certo senso, consente all’innovatore di “sedersi” sul proprio lavoro. Perché dovremmo sforzarci di produrre qualcosa di nuovo, se la legge ci garantisce una rendita economica che dura decine di anni? Walt Disney non si sarebbe fermato a Topolino, se già ai suoi tempi il copyright fosse stato esteso a oltre 100 anni come avviene oggi?
L’autore sottolinea inoltre che le recenti battaglie legali nel campo del software (fra cui il caso Apple contro Samsung) mostrano che il sistema della proprietà intellettuale è diventato farraginoso, complesso e inefficiente. Spesso le risorse destinate all’innovazione vengono bruciate in gigantesche battaglie legali che hanno un solo effetto: arricchire avvocati e studi legali.
Capocci spiega questi e altri fenomeni dell’economia globalizzata in modo semplice e chiaro, senza formalismi, in un libro agile che mostra come dietro l’illusione del senso comune la realtà della proprietà intellettuale sia più complessa e sfaccettata di quanto avremmo pensato possibile.