Ormeggiato al porto siciliano di Porticello-Porto Bagnera, il peschereccio Giuseppina Madre ostenta senza pudore il suo efficientissimo “arsenale” : una decina di chilometri di reti di nylon alte più di trenta metri che in alto mare oscillano sotto l’azione delle correnti e catturano gli animali avvolgendoli tra le sue maglie. Si tratta delle cosiddette spadare, ancora ampiamente utilizzate in Italia per la cattura di tonno e pesce spada, nonostante la normativa europea le abbia messe al bando nel 2002.Di imbarcazioni come quella siciliana Oceana, l’organizzazione internazionale per la conservazione marina, ne ha contate più di un centinaio concentrate per lo più in alcuni porti tra cui Sorrento, Sant’Agata di Militello, Lipari, Ponza, Bagnara Calabra.
Con tanto di foto, questa flotta abusiva è finita in calce al Rapporto “Reti derivanti italiane: la pesca illegale non si ferma” presentato lo scorso 9 giugno a Roma da Oceana insieme all’associazione Marevivo. Una cinquantina di pagine in cui sono riportati i risultati di tre campagne (2005, 2006, 2007) nelle acque del Belpaese: a sei anni dall’entrata in vigore della legge il tasso di violazioni è ancora altissimo e in alcuni dipartimenti marittimi, come Milazzo, il 36 per cento dei pescherecci mantiene a bordo reti derivanti (21 per cento a Palermo, 9 per cento a Reggio Calabria). Evidentemente i compensi ricevuti grazie ai vari “Piani spadare”, oltre 900.000 euro negli ultimi tre anni, per la riconversione ad altre attrezzature non hanno soddisfatto le ambizioni di guadagno dei pescatori, che lamentano un calo medio del 25 per cento del profitto.
I primi sussidi i pescherecci italiani cominciarono a riceverli già nel 1998, quando la guerra alle spadare era appena cominciata e i regolamenti europei imponevano solamente una graduale riduzione della lunghezza delle reti (fino a 2,5 metri). Ma anche allora la misura massima imposta per legge veniva violata con estrema disinvoltura come denunciava a Galileo Iliaria Ferri degli Animalisti italiani (Il ritorno delle spadare): “In Italia si sono continuate ad usare reti di lunghezza assai superiore fino a 18-20 chilometri, provocando danni gravissimi alla fauna del Mediterraneo”.
Note infatti anche come “muri della morte”, le spadare sono responsabili della cattura accidentale (bycatch) di specie protette come delfini e tartarughe marine e si calcola che 10.000 cetacei muoiano ogni anno impigliati nelle nelle loro trame (Reti fuorilegge ). Tanto che l’Unione Europea si era sentita in dovere di correre ai ripari con l’adozione di alcuni strumenti che aiutassero i delfini a evitare quelle trappole letali, tra cui i tanto criticati dispositivi acustici di dissuasione (cosiddetti “pinger”) a bordo dei pescherecci (Segnaletica per delfini).
Ma le spadare non risparmiano neanche gli squali del Mediterraneo, oramai ridotti al lumicino secondo un recente studio italiano pubblicato su “Conservation Biology” (Squali addio): “Non è meno preoccupante la cattura di varie specie di elasmobranchi”, si legge nel Rapporto di Oceana. “Le prove a nostra disposizione indicano che l’abbondanza e la diversità di queste specie nel Mediterraneo è in declino, oltre a trovarsi in uno scenario ben peggiore rispetto al resto delle popolazioni del mondo”.
Inoltre, a rendere insicure le acque italiane contribuiscono altre attrezzature per la pesca, vietate nel resto d’Europa, ma permesse da noi grazie a un decreto ministeriale del 2006. E’ così infatti che da un paio di anni sono riaffiorate dalle acque del Mediterraneo le “ferrettare”, gemelle più piccole delle spadare, che la normativa europea del 2002 accettava solo a determinate condizioni: uso a una distanza dalla costa inferiore alle tre miglia, lunghezza massima di due chilometri. Il decreto invece ha ampliato i margini: impiego fino a 10 miglia nautiche dalla costa e lunghezza fino a 2,5 metri, rendendo la “pesca all’italiana” un pericoloso precedente che altri paesi europei potrebbero essere tentati di seguire (Nella rete per distrazione).
Per evitare quindi il rischio che ogni paese possa legiferare a seconda delle proprie esigenze, Oceana chiede innanzitutto al governo italiano di revocare il decreto sulle ferrettare e inoltre invita le istituzioni italiane ad aumentare i controlli nei porti e in mare grazie all’impiego di “scatole nere” che consentano il controllo dell’attività via satellite, a rendere più trasparenti i dati, a esigere il rimborso dei contribuiti percepiti e il ritiro delle licenze in caso di violazioni accertate. Attirandosi, inevitabilmente, le antipatie di tanti pescatori. Si avrà il coraggio di farlo?