È l’aritmia cardiaca più comune ed una delle principali cause di mortalità cardiovascolare. Si tratta della fibrillazione atriale, uno dei più importanti fattori di rischio per l’ictus ischemico. Circa il 20-30 % degli ictus è causato infatti da una fibrillazione atriale non diagnosticata.
A causa dell’invecchiamento generale della popolazione, la patologia riguarderà sempre più persone nei prossimi decenni: in Italia si passerà dagli 1,1 milioni di casi del 2016 agli 1,9 milioni nel 2060, mentre in Europa si passerà dai 7,6 milioni di casi del 2016 ai 14, 4 milioni nel 2060. Queste le stime rese note da uno studio tutto italiano, condotto da ricercatori dell’Istituto di Neuroscienze del CNR (Cnr-In) e dell’Università di Firenze, pubblicato su EP Europace, organo ufficiale della European Society of Cardiology. La ricerca è stata finanziata dal Ministero della Salute, in collaborazione con la Regione Toscana.
Che cos’è la fibrillazione atriale
La fibrillazione atriale è il più frequente disturbo cronico del ritmo cardiaco di rilevanza clinica: il battito risulta molto rapido ed irregolare, rendendo impossibile un’efficace contrazione delle cavità atriali che si ripercuote sulla funzionalità dei ventricoli e sul flusso sanguigno. Si manifesta con palpitazioni, polso accelerato o irregolare, mancanza di respiro, stanchezza, dolore toracico, sensazione di mancamento, vertigini. La probabilità di sviluppare tale condizione aumenta all’avanzare dell’età.
Fibrillazione atriale e ictus
L’ictus ischemico, seconda causa di morte e prima causa di disabilità nel soggetto adulto-anziano, è tra le complicazioni più temute della fibrillazione atriale. I pazienti con fibrillazione atriale presentano, infatti, un rischio cinque volte superiore a quello della popolazione generale di esserne colpiti.
“Attualmente in Italia si verificano ogni anno circa 200.000 ictus, con un costo per il Servizio sanitario nazionale che supera i 4 miliardi di euro”, spiegano il coordinatore scientifico Antonio Di Carlo del Cnr-In ed il responsabile scientifico Domenico Inzitari dell’Università di Firenze. “Oltre un quarto sono attribuibili a questa aritmia che può provocare la formazione di coaguli all’interno del cuore, in grado di arrivare al cervello causando un ictus che viene definito cardioembolico. Rispetto agli ictus dovuti a cause diverse, quelli di origine cardioembolica hanno un impatto più devastante in termini di disabilità residua e sopravvivenza”.
La procedura di screening
I ricercatori hanno stimato la frequenza della fibrillazione atriale in un campione rappresentativo della popolazione anziana italiana, costituito da 6016 ultrasessantacinquenni arruolati tra gli assistiti dei medici di medicina generale nelle tre unità operative coinvolte, situate in Lombardia (Romano di Lombardia), Toscana (Firenze) e Calabria (Vibo Valentia). Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a una procedura di screening (sistematico e/o opportunistico) e, in caso di esito positivo, a successivo esame clinico ed elettrocardiogramma per confermare o meno il sospetto di fibrillazione atriale.
Lo screening sistematico è stato condotto sull’intera popolazione oggetto di studio, mentre quello opportunistico ha riguardato gli individui che non avevano risposto o che erano risultati negativi al primo e che, nei 12 mesi successivi all’inizio dello studio, avevano consultato il proprio medico di famiglia per un controllo di routine.
Lo screening sistematico prevedeva la somministrazione di un questionario a risposta chiusa con domande sull’eventuale presenza di sintomi tipici (palpitazioni con sensazione di battito accelerato e irregolare), precedenti diagnosi di fibrillazione atriale o di altre aritmie, assunzione di anticoagulanti orali e farmaci antiaritmici. I partecipanti venivano anche invitati, con l’aiuto di una vignetta esplicativa, a controllare il proprio battito e a fornire informazioni in caso di battito irregolare. I soggetti che avevano fornito una o più risposte affermative o riscontrato un battito irregolare venivano successivamente sottoposti ad un esame clinico e ad un elettrocardiogramma di conferma. Ad un’analoga indagine venivano sottoposti coloro che avevano dato esito positivo nello screening opportunistico. L’esito dello screening opportunistico era considerato positivo al verificarsi di una delle seguenti condizioni: diagnosi precedente di fibrillazione atriale, assunzione di anticoagulanti orali o di farmaci antiaritmici, esame clinico con polso irregolare, presenza di un pacemaker o di un defibrillatore cardioverter impiantabile.
La prevalenza in Italia e in Europa
I risultati dello studio indicano una elevata frequenza di questa aritmia cardiaca in Italia, pari in media al 7,3%. La prevalenza della malattia è strettamente associata con l’età avanzata, ed è più alta tra gli uomini che tra le donne in ciascun gruppo di età.
“Questo significa –prosegue Di Carlo- che un anziano su 12 ne è colpito, portando a stimare in circa 1,1 milioni i soggetti affetti da questa aritmia in Italia. Lo studio ha inoltre permesso di dimostrare che, per effetto dei cambiamenti demografici, questi numeri saranno in costante crescita nei prossimi anni, fino a raggiungere 1,9 milioni di casi nel 2060”. Con un aumento del 75% nei prossimi quarant’ anni.
Utilizzando le proiezioni demografiche dell’Ufficio europeo di statistica (Eurostat), è stato possibile anche stimare i casi di fibrillazione atriale attesi nella popolazione anziana dei 28 paesi dell’Unione Europea. Nel 2016 in Europa circa 7,6 milioni di persone con più di 65 anni soffrivano di fibrillazione atriale; un numero destinato ad aumentare dell’89%, passando a 14,4 milioni nel 2060.
L’aumento dei casi di fibrillazione atriale nei prossimi decenni, riguarderà soprattutto i più anziani, che presentano anche il rischio maggiore di ictus e comorbilità legate alla fibrillazione atriale, come insufficienza cardiaca e deficit cognitivo. Nel 2016 in Italia gli ultraottantenni affetti da fibrillazione atriale rappresentavano il 53 % dei casi, nel 2060 saranno il 69% del totale. In Europa si passerà dal 51 % al 65 %.
“I pazienti con fibrillazione atriale con età superiore agli 80 anni presentano un rischio di ictus ancora maggiore e per tale ragione questo cambiamento demografico ha enormi implicazioni per l’UE” ha detto Di Carlo. “Considerando che i pazienti anziani con fibrillazione atriale sono quelli a maggior rischio di comorbosità e complicanze, il peso di questa aritmia è destinato a crescere enormemente nei prossimi decenni, con un prevedibile aumento degli ictus cardioembolici, di maggior gravità, ponendo delle importanti sfide legate alla prevenzione e al trattamento” sottolineano Di Carlo e Inzitari.
Prevenire la fibrillazione atriale per ridurre il rischio di ictus
Non fumare, fare attività fisica, bere alcolici con moderazione, seguire una dieta sana, controllare periodicamente la pressione sanguigna: questi i suggerimenti per prevenire la fibrillazione atriale.
Ma occorrono anche adeguate campagne di screening, con il coinvolgimento dei medici di medicina generale, per un’identificazione precoce della fibrillazione atriale. I medici di famiglia dovrebbero eseguire una semplice valutazione del polso durante ogni visita e sottoporre i pazienti ad elettrocardiogramma in caso di battito irregolare. “La maggior parte delle persone anziane- continua Di Carlo- va dal proprio medico di famiglia almeno una volta all’anno; quindi questo è un metodo efficiente ed efficace per diagnosticare la fibrillazione atriale e prevenirne le complicanze”. “Va ricordato infatti che- prosegue Di Carlo- sono attualmente disponibili terapie efficaci, quali i farmaci anticoagulanti, che permettono di ridurre di due terzi il rischio di ictus in questi pazienti, ma che non sempre sono utilizzate al meglio”.
“Per ora – ha concluso Di Carlo- raccomando questo approccio. In futuro potrebbero esserci dispositivi affidabili per lo screening di prima linea da parte dei pazienti, come applicazioni per lo smartwatch, ma queste tecnologie non sono ancora pronte per un uso diffuso”. Alla luce di tali considerazioni- conclude Inzitari- “diagnosi precoci, piani terapeutici adeguati e aderenza alla terapia continuano ad essere gli strumenti più idonei per affrontare la patologia che ha per protagonisti, in un rapporto di reciproca mutualità, da un lato il paziente e, dall’altro, il medico di medicina generale”.
Riferimenti: EP Europace