Il 13 marzo del 1610 viene pubblicato a Venezia nella stamperia di Tommaso Baglioni il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei, dove per la prima volta lo studioso pisano riporta a stampa una serie di rivoluzionarie scoperte astronomiche, prima fra tutte quelle sulla Luna, ottenute con l’ausilio di un nuovo strumento, il cannocchiale. La tiratura è di 550 copie, e dopo una settimana il libello è già introvabile.
Il cannocchiale di Galileo
Come scrive Galileo nelle prime pagine dell’opera, il cannocchiale non è una sua invenzione (1) . La notizia che «un certo Fiammingo aveva fabbricato un occhiale [perspicillum], mediante il quale gli oggetti visibili, per quanto molto distanti dall’occhio dell’osservatore, si vedevano distintamente come fossero vicini», gli era giunta circa dieci mesi prima, nel giugno del 1609. Con scarse conoscenze di ottica, Galileo compie una serie di prove assemblando diversi tipi di lenti e finendo per scegliere una coppia di lenti, piano-convessa nell’oculare e biconcava nell’obiettivo, con le quali costruisce nel luglio 1609 il primo cannocchiale. Perfezionamenti successivi portano Galileo a ottenere un cannocchiale con più di 20 ingrandimenti, con cui inizia a osservare il cielo verso la fine del 1609.
Grazie al nuovo strumento Galileo compie le prime scoperte descritte nel Sidereus Nuncius: la Luna non è una sfera “perfettissima”, ma la sua superficie è del tutto simile a quella della Terra con monti e valli; le costellazioni e la Via Lattea sono ammassi di stelle di cui solo poche sono visibili a occhio nudo (un fiero colpo alle credenze dell’epoca e in particolare all’astrologia, e un pericoloso richiamo alla bruniana infinità dei mondi); Giove ha quattro lune. Su quest’ultima scoperta Galileo insiste con particolare enfasi alla fine del Sidereus Nuncius:
«Abbiamo [così] un ottimo ed eccellente argomento per togliere di scrupolo coloro che, pur accettando con animo tranquillo nel Sistema Copernicano la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono però così turbati dalla rotazione della sola Luna intorno alla Terra, mentre intanto ambedue compiono l’annuo giro intorno al Sole, da ritenere che si debba respingere questa struttura dell’universo come impossibile; perché ora non abbiamo più un solo Pianeta rotante intorno a un altro, mentre entrambi percorrono una grande orbita intorno al Sole, ma bensì i nostri sensi ci mostrano quattro Stelle erranti intorno a Giove, come la Luna intorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, nel corso di 12 anni, tracciano una grande orbita intorno al Sole» (2) .
Galileo astrologo scettico, tra oroscopi e cannocchiali
Per comprendere oggi quanto rivoluzionarie siano le scoperte galileiane e quanto moderno il suo approccio ci soffermeremo brevemente sulle credenze diffuse all’epoca e su alcuni fondamentali presupposti delle ricerche galileiane. Analizzeremo, quindi, in dettaglio la parte del Sidereus Nuncius che tratta della Luna.
Fisica terrestre e fisica celeste
La concezione ancora dominante all’epoca di Galileo, sostenuta dai seguaci di Aristotele, distingueva nettamente i fenomeni e gli oggetti celesti da quelli terrestri. I corpi celesti dalla Luna in su, creati ab inizio da Dio, erano formati da una sostanza speciale, una quintessenza perfettissima non soggetta a variazione alcuna; la loro perfezione si rispecchiava nella perfezione della loro forma sferica e dei loro eterni moti circolari.
Al contrario, la regione sublunare, comprendente l’atmosfera e la Terra, era sede del divenire, della vita e della morte, della generazione e della corruzione, e ospitava corpi formati dalla mescolanza di quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco). Questi corpi, a seconda della proporzione degli elementi costituenti, avevano una loro collocazione “naturale” a un certa altezza o distanza dal centro della Terra: se si trovavano in luoghi diversi, compievano moti “naturali” in linea retta che li riportavano nel loro luogo naturale. Su questa base si spiegava, per esempio, il moto di un grave verso la superficie della Terra, e il moto delle fiamme del fuoco verso l’alto. La distinzione fra fisica terrestre e fisica celeste era perfettamente coerente col sistema aristotelico-tolemaico, che vedeva la Terra ferma al centro dell’Universo e le stelle fisse o erranti compiere i loro moti circolari intorno a essa. Elementi metafisici e teologici si mescolavano a una siffatta concezione del Cosmo rendendo difficile e addirittura pericoloso metterne in discussione gli assunti.
Il progetto di Galileo: una fisica per il sistema di Copernico
In questo contesto la proposta copernicana di un Sole fermo nell’Universo intorno al quale si svolgevano i moti dei corpi celesti, ivi compresa la Terra, non solo si scontrava con la concezione dominante e con le autorità politiche, religiose e accademiche che la sostenevano, ma ingenerava anche una serie di interrogativi di non facile soluzione per la scienza dell’epoca. Quale era la fisica che doveva supportare il sistema copernicano? Se a esso infatti si applicava la fisica di tradizione aristotelica si ottenevano una serie di paradossi (uno per tutti: perché se la Terra gira, si osserva che un corpo in caduta libera dalla cima di una torre arriva alla base di questa e non a grande distanza a causa del moto di rotazione della superficie terrestre?).
D’altra parte, se la Terra si muove intorno al Sole come gli altri corpi celesti, perché trattare la fisica della Terra come distinta da quella celeste? Non è un caso che Galileo giunga alle sue rivoluzionarie scoperte astronomiche lungo un percorso nel quale la sua progressiva accettazione del sistema copernicano (di cui si hanno le prime testimonianze verso la fine del Cinquecento) si congiunge con lo studio dei moti locali e con la maturazione del convincimento che la distinzione tra fisica celeste e fisica terrestre debba essere rimossa in favore di un’unica fisica.
Della fisica dei moti locali Galileo comincia a occuparsi già a Pisa ((3) ) per continuare poi i suoi studi nel settore nel periodo padovano, dal 1592 al 1610. E proprio a Padova, in una lettera all’amico Paolo Sarpi del 1604 (4) , Galileo enuncia la famosa legge del moto uniformemente accelerato dicendo che in esso gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi impiegati a percorrerli. Anche se la dimostrazione corretta di questa legge richiederà lunghi anni di lavoro, è certo che tra il 1604 e il 1609 Galileo svolge innumerevoli esperimenti nell’ambito delle ricerche sul moto che lo portano a fondamentali risultati sia nei moti rettilinei (uniformi e uniformemente accelerati) sia nel moto dei pendoli e in quello dei proiettili.
In quegli stessi anni, come testimoniato dalle notevoli pagine del Dialogo de Cecco Ronchitti da Bruzene in perpuosito de La Stella Nuova (1605) (5) , Galileo espone la sua convinzione a favore sia del sistema copernicano sia della sostanziale unità tra fisica celeste e terrestre. Insomma, nei primi anni del Seicento, prende definitivamente forma il suo grande progetto di una fisica per il copernicanesimo, nel quale la fertilizzazione incrociata tra ricerche astronomiche e ricerche sui moti locali trova pieno dispiegamento.
La conoscenza nasce dall’esperienza: l’Umanesimo e la rivalutazione della tecnica
Le questioni attinenti ai “massimi sistemi” hanno come contraltare il lungo processo di rivalutazione delle arti manuali iniziato in Italia nel XV secolo (6) , di cui Galileo coglie gli esiti maturi. Sia Platone sia Aristotele avevano disprezzato l’arte meccanica e il lavoro manuale. L’assimilazione dell’opposizione tra schiavi e liberi a quella tra tecnica e scienza – tra conoscenza rivolta alla pratica e all’uso e conoscenza rivolta alla contemplazione della verità – era andata consolidandosi nei secoli. Non a caso, le sette arti liberali (del trivio: grammatica, retorica e dialettica; e del quadrivio: aritmetica, geometria, musica e astronomia) erano tali perché proprie degli uomini liberi, mentre quelle meccaniche e manuali erano proprie dei non liberi o degli schiavi.
Un primo significativo cambiamento si manifesta nell’ambito dell’Umanesimo italiano con l’incontro tra artisti e scienziati. Gli studiosi dell’epoca cominciano ad accorgersi che nelle botteghe artigiane è presente un’enorme quantità di conoscenze che sono andate accumulandosi nel tempo come frutto della pratica, del caso e dell’ingegno. Utilizzando una nomenclatura moderna, queste conoscenze spaziano dall’architettura all’ingegneria, dalla chimica alla fisica. Diventava insomma sempre più chiaro che la produzione di conoscenza avveniva anche, se non soprattutto, a opera di chi lavorava con le mani e tramite manufatti.
Da questi primi contatti tra studiosi/scienziati da un lato e artisti/ artigiani dall’altro nasce lentamente una nuova immagine dello scienziato e una progressiva rivalutazione della tecnica e dei suoi prodotti visti come funzionali al progresso della conoscenza. Queste esperienze seminali del Quattrocento sono in parte alla base della rivalutazione cinquecentesca delle arti meccaniche e della difesa sempre più decisa della loro dignità nell’ambito della cultura. La saldatura tra scienza e tecnica, che segnerà in seguito l’intero sviluppo della conoscenza scientifica occidentale, trae la sua origine proprio da questo vasto movimento di idee radicato nell’Umanesimo e nel Rinascimento italiano. Solo alla luce di questa faticosa riaffermazione delle arti meccaniche, acquista particolare significato l’atteggiamento di Galileo, che nel 1609 punta verso il cielo il suo cannocchiale: la fiducia in uno strumento nato nelle botteghe artigiane, disprezzato dalla scienza ufficiale, funzionale non a deformare ma a potenziare la vista, fonte di nuova conoscenza contro l’assolutezza del guardare “naturale” degli occhi umani propria della tradizione scolastica. Quanto Galileo fosse consapevole interprete di questa svolta lo si vede dal seguente brano tratto dai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, il capolavoro galileiano pubblicato nel 1638:
«SALV. Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande d’artefici, tra i quali, e per l’osservazioni fatte da i loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per sé stessi facendo, è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso. SAGR. V.S. non s’inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa preminenza che tengono sopra ’l resto della maestranza, domandiamo proti; la conferenza de i quali mi ha più volte aiutato nell’investigazione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili» (7) .
Galileo e la Luna
Quando Galileo punta il cannocchiale è quindi ben conscio delle potenzialità del nuovo manufatto da lui trasformato in strumento scientifico. È anche convinto che la Luna possa essere guardata come la Terra, e così gli altri pianeti e così le stelle. Una convinzione che manca ad altri, che pure in quel periodo, e anche prima di Galileo, puntano il cannocchiale verso il cielo. Caso emblematico quello di Thomas Harriot, tornato anche alla ribalta per una sorta di sciovinismo che dovrebbe essere estraneo alla storia della scienza. Qualche tempo prima che Galileo puntasse il cannocchiale verso la Luna, Harriot compiva (giugno 1609) con un telescopio da 6 ingrandimenti le prime osservazioni del satellite della Terra: i disegni che ne ricavò rimasero tra i suoi appunti e vennero resi noti solo molto tempo dopo. Sia per la scarsa potenza del suo cannocchiale sia, in ispecie, per l’inerzia a superare concezioni dominanti, Harriot a differenza di Galileo guarda ma non vede. Inizia a vedere davvero dopo aver letto nel Sidereus Nuncius le scoperte di Galileo.
Ma veniamo a quanto scrive Galileo a proposito della Luna nel Sidereus Nuncius. Dopo aver descritto come sia venuto a conoscenza del nuovo strumento e come l’abbia perfezionato, Galileo espone le scoperte fatte partendo proprio dalla Luna. L’incipit è significativo: inizia dalle credenze dell’epoca per sovvertirle. Parto, scrive Galileo, dalla faccia lunare a noi rivolta e, per facilità di comprensione, la divido in due parti, una più chiara e una più scura. La più chiara sembra «circondare e cospargere di sé tutto l’emisfero; la più scura invece offusca a guisa di nuvola la faccia stessa e la fa apparire macchiata». La Luna insomma è “macchiata”, secondo la credenza dell’epoca, da una sorta di nuvola che altera alla vista la sua perfetta forma sferica.
Ora, osserva Galileo, queste macchie «alquanto oscure» e «abbastanza ampie» furono viste da sempre e per questo le chiama «grandi o antiche». Esistono però altre macchie «di minore ampiezza ma così fitte da ricoprire tutta la superficie lunare, e specialmente la parte lucente». Queste non sono mai state osservate prima e provano, secondo Galileo, che la superficie della Luna «non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima» come invece sostiene «una numerosa schiera di filosofi», ma al contrario è «disuguale, scabra, ripiena di cavità e sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra» con le sue catene di montagne e le profonde valli (8).
Fulgori e oscurità dei corpi celesti:
dalla luna di Galileo alla cometa Churyumov-Gerasimenko
Galileo avvalora le sue conclusioni riportando le osservazioni da lui condotte nel corso delle varie fasi lunari sulla linea di divisione tra parte chiara e parte scura della Luna. Se la Luna fosse una sfera perfetta, il confine tra luce e ombra dovrebbe essere una “linea ovale”. Esso invece appare come «una linea disuguale, aspra e notevolmente sinuosa » (9) . La spiegazione è che le escrescenze della Luna prendono luce prima degli avvallamenti. Questo giustifica anche il fatto che si scorgono piccole zone luminose all’interno della zona scura e zone scure nella parte chiara: sono montagne particolarmente alte, nel primo caso, e valli particolarmente profonde, nel secondo. Vengono qui in aiuto a Galileo i suoi studi nell’ambito della pittura sulla prospettiva e sul chiaroscuro, che probabilmente l’avevano portato a leggere la Practica della Perspectiva di Daniele Barbaro e La pratica di prospettiva di Lorenzo Sinigatti.
Anche su questa base, Galileo sviluppa nel testo una serie di calcoli che gli consentono di dare una prima stima dell’altezza dei monti lunari. È un ulteriore esempio della fertile interazione tra conoscenze nell’ambito delle arti e conoscenza scientifica che caratterizza le fasi nascenti della scienza moderna ((10) ). La libertà dai pregiudizi dell’epoca permette a Galileo di rivalutare congetture del passato alle quali il nuovo strumento offre basi osservative inattese. Scrive, per esempio, che «se qualcuno volesse risuscitare l’antica opinione dei Pitagorici, esser cioè la Luna quasi un’altra Terra, la parte di essa più luminosa rappresenterebbe più propriamente la superficie solida, la più oscura invece l’acquea: laddove io ho sempre ritenuto per certo che del globo terrestre, veduto da lontano quando sia illuminato dai raggi solari, le terre emerse si mostrerebbero più luminose, le acquee invece più oscure» ((11) ).
Le prime credenze demolite
Come nella stragrande maggioranza dei testi scientifici che sovvertono credenze consolidate, non mancano una serie di risposte a domande che successivamente, per consuetudine e inerzia mentale, non vengono più avanzate. Ne diamo qui due esempi particolarmente significativi.
Il primo riguarda il fatto del perché, se la Luna ha tutte queste asperità, il contorno del suo disco non si mostra a noi «sotto specie quasi di ruota dentata». Questo, risponde Galileo, potrebbe avvenire solo se le prominenze fossero distribuite unicamente lungo la circonferenza, mentre invece esse sono costituite da «moltissime file di monti con le loro valli e anfratti» sia nell’emisfero visibile sia in quello invisibile. Ne discende che «un occhio che guardi da lungi non potrà minimamente cogliere il distacco tra sporgenze e cavità, perché gli intervalli dei monti disposti nel medesimo circolo […] sono occultati dall’interporsi di altre elevazioni disposte in altre e poi altre file». È quello che avviene, ragiona Galileo per analogia, con le onde del mare in tempesta che sembrano disposte sul medesimo piano, «sebbene tra flutto e flutto grandissima sia la frequenza di voragini e di lacune» a tal punto pronunciate da poter nascondere interamente «imponenti navigli» (12) .
La seconda questione su cui si sofferma Galileo concerne il fatto che la faccia lunare, sia nella fase di Luna nuova sia nelle fasi di progressiva illuminazione, manifesta un bagliore che illumina di «tenue chiarore» la sua superficie oscura e il contorno del disco lunare. Questo chiarore – scrive Galileo – ha suscitato non poca meraviglia negli studiosi, che hanno avanzato varie spiegazioni tutte facilmente smentibili: «alcuni dissero posseder la Luna un suo proprio e naturale splendore; altri, che le fosse impartito da Venere; altri, da tutte le stelle; altri, dal Sole, il quale coi suoi raggi attraverserebbe la profonda solidità della Luna». Dopo aver dimostrato la falsità di queste affermazioni, Galileo propone la sua soluzione dell’enigma: il bagliore tenue della parte scura della Luna è il riverbero della luce solare sulla faccia della Terra. Che la Terra rifletta la luce solare è non solo un’ulteriore prova della somiglianza tra Luna e Terra, ma dimostra «a coloro che vanno proclamando doversi questa [la Terra] escludere dal giro danzante delle Stelle, soprattutto per il motivo che sarebbe priva di moto e di luce» che la Terra è «errante e superante in splendore la Luna» ((13) ).
Con queste parole Galileo conclude il resoconto delle sue osservazioni sulla Luna annunciando la pubblicazione di un’opera, il Sistema del mondo, nel quale tratterà «più diffusamente […] con moltissimi ragionamenti ed esperimenti» quanto fin qui esposto. L’opera di cui si parla verrà infine stampata nel 1632 col titolo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. E come è noto non gli varrà un qualche premio Nobel dell’epoca, ma la condanna del Sant’Uffizio.
NOTE
(1) Le citazioni ai testi galileiani sono riferite a Galileo Galilei, Edizione Nazionale delle Opere, a cura di Antonio Favaro, 20 voll., G. Barbèra Editore, Firenze 1968 (abbreviata in seguito con Opere), mentre la traduzione è essenzialmente ripresa da Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, Marsilio, Venezia 1993 (testo originale con traduzione a fronte di Maria Timpanaro Cardini). Cfr. Opere, vol. III, p. 60-1 (trad. it. p. 85-7).
(2) Cfr. Opere, Vol. III, p. 95 (trad. it. p. 173).
(3) Cfr. gli scritti oggi raccolti col titolo De motu, in Opere,vol. I, pp. 243-419.
(4) Cfr. Opere, vol. X, pp. 115-116.
(5) Cfr. Opere, vol. II, pp. 307-34. Scritto sotto pseudonimo in dialetto pavano ispirato al Ruzzante, il Dialogo ha come protagonisti due contadini, Natale e Matteo: il primo riporta le opinioni di un “letterato da Padova” (il Lorenzini) e l’altro le mette in berlina utilizzando argomentazioni di chiara ispirazione galileiana esposte in modo semplice e con esempi tratti dalla quotidianità. È ormai assodato che il testo è opera scritta a quattro mani da Galileo e da Girolamo Spinelli, un giovane monaco benedettino che frequentava la cerchia galileiana. Per ulteriori dettagli si veda G. Peruzzi, «Il giorno della stella nuova», Le Scienze, n.434, ottobre 2004, pp. 68-79.
(6) Cfr. P. ROSSI, I filosofi e le macchine, 1400-1770, Feltrinelli, Milano 1962; P. ROSSI (a cura di), La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, Loescher, Torino 1973.
(7) Cfr. Opere, vol. VIII, p. 49.
(8) Cfr. Opere, vol. III, pp. 62-3 (trad. it. p. 91).
(9) Cfr. Opere, vol. III, pp. 63 (trad. it. p. 91-2).
(10) Cfr. S.Y. E DGERTON, JR., The Heritage of Giotto’s Geometry: Art and Science on the Eve of the Scientific Revolution, Cornell Univ. Press, Ithaca and London 1991.
(11) Cfr. Opere, vol. III, pp. 65 (trad. it. p. 97).
(12) Cfr. Opere, vol. III, pp. 69-70 (trad. it. p. 105).
(13) Cfr. Opere, vol. III, pp. 72-5 (trad. it. p. 111-19).
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