Qual è l’animale con gli “occhi più grandi del mondo”? La palma spetta all’oftalmosauro, della famiglia degli ittiosauri, un rettile vissuto oltre 200 milioni di anni fa nell’era del Mesozoico. La rivelazione è stata fatta alla rivista Nature dai ricercatori Ryosuke Motani, Bruce M. Rotschild e William Wahl dell’Università di Toronto, Canada, il 15 dicembre scorso. Il team di scienziati ha scoperto che questo rettile marino era in grado di immergersi fino a 600 metri di profondità e quindi le enormi dimensioni degli occhi erano probabilmente il risultato di un adattamento alla poca luce presente negli abissi marini. Galileo ha intervistato Ryosuke Motani dell’Università di Toronto.
L’oftalmosauro assomiglia moltissimo all’attuale delfino: la forma idrodinamica, la presenza di una pinna dorsale e anche la capacità di catturare prede velocissime come le seppie, sono tutti caratteri che ci ricordano il simpatico mammifero.
Ma a che cosa gli servivano degli occhi così grandi? “Le seppie, come i loro progenitori che vivevano ai tempi degli ittiosauri e dei dinosauri, sono in grado di immergersi a grandi profondità, tra i 200 e i 600 metri dove arriva pochissima luce. I delfini riescono a catturare le prede al buio grazie al loro sviluppatissimo sistema di eco-localizzazione. Gli ittiosauri, privi di questa capacità, risolsero il problema in un altro modo: la selezione naturale favorì gli individui con gli occhi più grossi, dato che la loro grandezza è proporzionale alla sensibilità alla luce: più è grande l’occhio, più lo sono i fotoreccetori, più l’animale è sensibile agli impulsi luminosi”.
Motani e la sua squadra sono riusciti a ricostruire la dimensione dell’occhio di vari ittiosauri misurando l’anello sclerotico dei fossili. L’oftalmosauro era l’animale con gli occhi più grossi rispetto alle dimensioni corporee, paragonato sia agli altri ittiosauri che a qualsiasi altro vertebrato mai esistito sul nostro pianeta: questo animale misurava circa quattro metri in lunghezza e il diametro del suo occhio era di ben 220 millimetri. Per rendersi conto della sproporzione basta osservare che l’occhio della balenottera azzurra, il vertebrato più grosso oggi esistente, misura 150 millimetri di diametro, ma il corpo del cetaceo raggiunge in media i 30 metri.
Lo sviluppo di un determinato canale sensitivo (in questo caso quello visivo) in genere si accompagna a quello di una specifica zona del sistema nervoso centrale. “Nel caso degli ittiosauri è difficile ricostruirne la forma esatta”, spiega ancora Motani, “come nelle lucertole moderne, la scatola cranica non aderisce perfettamente al cervello, quindi le impronte trovate sulle pareti interne del cranio sono molto parziali. I reperti lasciano però intravedere delle impronte che potrebbero suggerire un enorme sviluppo dei bulbi oculari”.
Studiando i fossili di queste affascinanti creature, il team di scienziati è riuscito anche a dimostrare che gli ittiosauri potevano compiere delle formidabili immersioni. Questa osservazione si basa sul fatto, ben documentato, che gli animali in grado di immergersi profondamente di solito non soffrono di una patologia specifica che deriva dalla malattia di Callson. Questo disturbo si può diagnosticare dalla presenza di “pieghe” nell’omero e nel femore. Lo studio comparato dello scheletro di diversi generi di ittiosauro ha rivelato che gli esemplari con maggior capacità visiva erano anche quelli che mostravano un minor numero di “pieghe”, ossia un miglior adattamento fisiologico alle alte pressioni che si riscontrano nelle zone profonde dell’oceano.
Guardando la complessità della vita sociale degli odierni delfini ci si può chiedere anche se lo sviluppo di occhi così grandi negli ittiosauri possa essere stato causato dallo sviluppo di un complesso sistema di comunicazione visiva tra individui della stessa specie. Motani però non si sbilancia: “Potrebbe essere una spiegazione plausibile, ma non è ancora possibile arrivare a spiegazioni così complesse. E’ difficile risalire al comportamento di questi animali partendo soltanto dai loro fossili”.