La cifra è tutt’altro che modica: 15,6 miliardi di euro. È quanto paga l’Italia per la sua ignoranza informatica. Il dato, paragonabile a quello di un’intera manovra di finanza pubblica, si riferisce, infatti, ai soldi che ogni anno non entrano nelle casse del nostro paese (settore pubblico e privato) a causa delle inadeguate competenze informatiche di chi, per lavoro, usa il computer. Una cifra paurosamente alta che emerge da uno studio condotto dall’Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico (Aica), in collaborazione con la Scuola di direzione aziendale (Sda) della Bocconi, e presentato il 13 marzo scorso a un convegno sul tema “Il costo dell’ignoranza nella società dell’informazione”, svoltosi presso l’Università Luiss di Roma e organizzato da Aica con il patrocinio della Commissione Europea e del Ministro per l’innovazione e le tecnologie. L’indagine ha mostrato in particolare che il tempo improduttivo per difficoltà tecniche da parte di chi utilizza il Pc in ufficio ammonta in media a 2 ore e 15 minuti alla settimana. La stima tiene conto complessivamente dei minuti persi nel richiedere l’aiuto di colleghi più esperti per programmi che non si sanno usare, per il malfunzionamento della stampante o del database aziendale, oppure perché Internet e la posta elettronica si sono bloccati, o ancora perché il sistema informatico è stato attaccato da un virus che, spesso, l’utente generico non sa riconoscere subito. Moltiplicando allora il tempo improduttivo in un anno per il numero di lavoratori che adoperano il computer e per il costo medio del lavoro in Italia per singolo addetto, il conto da oltre 15 miliardi è così servito. Galileo ne ha parlato con Fulvia Sala di Aica, che ha coordinato la ricerca sull’ignoranza informatica degli italiani insieme a Pier Franco Camussone di Sda. Dottoressa Sala, con quali modalità è stata svolta l’indagine?”La ricerca si è articolata in due parti. Quella di Aica sull’alfabetizzazione informatica, in cui abbiamo integrato tutte le informazioni – dati anagrafici e occupazione – contenute nel nostro database sui circa 170 mila diplomati Ecdl (la patente europea del computer, n.d.r.) con due indagini campionarie effettuate su 500 di questi soggetti per ottenere ulteriori indicazioni. Un secondo studio, compiuto da Sda, ha preso come riferimento un’accurata indagine dell’istituto di statistica della Norvegia sul tempo medio che viene perso in quel paese per improduttività a causa di carenze informatiche. Il dato norvegese è stato applicato poi al costo medio italiano per persona, e per la popolazione italiana è venuta fuori quella cifra, impressionante, di 15 miliardi”. Non ci sono dei problemi nel trasferire i dati norvegesi alla realtà italiana?”In linea di massima no. Anzi, il tempo perso in Italia è forse maggiore del tempo perso in Norvegia. Quindi, al limite, il nostro calcolo è una sottostima. Va aggiunto comunque che abbiamo avuto una conferma indiretta di quel dato in base a un’altra, recentissima indagine realizzata da Sda su circa 200 persone: un campione di utenti italiani che avevano appena un’infarinatura di informatica e che i ricercatori di Sda hanno sottoposto a un insieme di esami per verificare le competenze Ecdl. Alle stesse persone è stato poi fatto seguire un corso Ecdl e successivamente una nuova tornata di esami. E si è visto effettivamente un guadagno in produttività e in qualità del lavoro svolto”.A questo proposito, quali sono allora le conoscenze basilari da possedere per non essere bollati come “ignoranti informatici”?”Non è una questione semplice, ma di sicuro è un qualcosa che va precisato. Non a caso molte organizzazioni, tra cui Aica, hanno deciso di codificare un insieme di cognizioni che un utente deve avere per essere definito competente in informatica.. In generale, le nozioni di base sono relative alle conoscenze nei vari programmi di word, excel, power point e di Internet. In effetti, il successo che hanno avuto le certificazioni informatiche, tra cui soprattutto la patente europea del computer, è legato proprio alla possibilità di consentire queste identificazioni minime di competenza, altrimenti alfabetizzazione rimarrebbe un termine molto vago”.Parlando di competenze informatiche, come si colloca attualmente la situazione italiana nell’ambito europeo?”Certamente non bene. L’Italia è uno dei tre paesi europei, insieme a Portogallo e Grecia, in cui l’informatica non è o almeno non è stata fino a oggi disciplina curricolare nella scuola secondaria superiore. Già questo è un aspetto piuttosto negativo che indica un ritardo rispetto all’Europa. In secondo luogo, solo il 18 per cento della nostra forza lavoro ha ricevuto una formazione informatica di base, mentre in Europa il dato si attesta intorno al 28 per cento. Ci sono poi degli indicatori della Commissione Europea e della statunitense Harvard University che mettono a confronto la capacità di innovazione dei vari paesi e lo stato di sviluppo nel settore dell’informazione, e noi in queste classifiche siamo sempre agli ultimi posti”. Cosa fanno allora le aziende di fronte a questo problema?”Il fatto è proprio che, oltre alla scuola, anche le aziende non formano nell’informatica. Cioè, la maggior parte degli utenti impara a utilizzare gli strumenti per conto proprio, come risulta anche dall’indagine compiuta dal nostro gruppo. Il fatto che solo il 18 per cento dei lavoratori italiani abbia una formazione di base e che una percentuale ancora più bassa l’abbia acquisita sul posto di lavoro significa proprio che la formazione è un carattere ancora prettamente individuale. Le aziende non sembrano rendersi conto che c’è una perdita di produttività se il computer non lo si sa maneggiare bene. Oggi, peraltro, le linee guida dell’Unione Europea mirano a diffondere l’alfabetizzazione e in particolare l’Ecdl: se anche il mondo dell’impresa italiana desse più attenzione alla formazione informatica, la nostra situazione non potrebbe che migliorare”.