Il calderone di Medea

    Mirko D. Grmek, Il calderone di Medea
    Laterza, Roma-Bari 1996, pp.144,lire 18.000)

    Questo agile libretto raccoglie i testi delle lezioni tenute da Mirko D. Grmek all’Università di Padova, cosa che spiega il motivo per cui il volume appare direttamente in italiano.
    A differenza che in opere precedenti, dove il famoso storico della medicina incrociava diversi tipi di indagine per comprendere il divenire delle patologie, in questo caso l’autore si comporta come uno storico classico, che utilizza solamente fonti scritte per affrontare un problema basilare della storia della scienza: come nasce la sperimentazione, e in particolare la sperimentazione biologica?
    Per rispondere a questa domanda Grmek esplora un campo che conosce bene, quello dell’Antichità classica, e pone una questione di fondo: perché gli Antichi non hanno potuto accedere al modo di pensare che presuppone la sperimentazione, che noi oggi consideriamo lo strumento di indagine più potente nello studio dei fenomeni naturali, nonostante avessero effettuato esperimenti sugli esseri viventi?
    La sperimentazione implica in effetti uno scambio continuo tra i fatti e il pensiero, e la sua pratica ha preceduto di molto la sua teorizzazione. Ma quando ha avuto inizio? Le risposte variano in ragione del modo in cui la si considera. Secondo Grmek, poiché la sperimentazione non è un’azione intellettuale spontanea, l’umanità ha potuto impadronirsene solo lentamente, attraverso un’elaborazione graduale sviluppatasi in un continuum logico e cronologico che va dal tentativo sperimentale ingenuo (una sorta di prolungamento dell’esperienza nel senso comune del termine), alla sperimentazione altamente sofisticata come quella praticata nel nostro secolo. Lo storico constata così che il pensiero antico ha potuto accedere solamente ai primi gradini di questo continuum, quelli che vanno dalla sperimentazione qualitativa elementare alle premesse di una sperimentazione quantitativa o qualitativa di tipo ipotetico-deduttivo, senza mai oltrepassare la sponda che lo separa da una coscienza metodologica.
    A spiegazione di questo ristagno esistono alcuni “ostacoli epistemologici”. Innanzitutto le resistenze di un certo razionalismo che diffidava dell’empirismo e della magia. Grmek a questo proposito riporta il mito di Medea che aveva proposto al re Pelia di farlo ringiovanire. Per convincerlo, uccise un vecchio caprone e mise il suo corpo fatto a pezzi in un calderone, dal quale fece uscire un animale giovane e pieno di vita. Pelia accettò così di farsi uccidere e, ovviamente, Medea fu incapace di farlo resuscitare. Un mito che testimonia la diffidenza degli Antichi nei confronti di procedimenti che tentano di modificare il corso spontaneo degli eventi, e i rischi di frode che essi comportano.
    L’opera si presenta come una serie di capitoli separati, ordinati secondo una progressione strettamente cronologica. Grmek prende le mosse dai “tentativi sperimentali ingenui”, visti come i più antichi esempi di sperimentazione accertata, a cominciare da quello (riportata da Erodoto) attribuito al faraone Psammetico (663-609 a.C.) che, desideroso di conoscere quali fossero i più antichi tra tutti gli uomini, aveva tenuto in isolamento alcuni bambini per vedere quale fosse la loro lingua naturale.
    Vengono poi ricordate le osservazioni indotte dei medici pre-ippocratici, come Alcmeone di Crotone (al quale si deve la constatazione che la sezione dei nervi ottici provoca la cecità anche quando l’occhio è intatto, cosa che lo portò a localizzare la sede delle sensazioni nel cervello). Lo stesso Ippocrate, alla fine del V secolo, mise l’accento sul fatto che la scoperta dell’arte medica, come quella dell’arte culinaria, era dovuta ad una serie di tentativi coronati da successo e da insuccesso, e che i farmaci erano stati trovati procedendo “alla cieca”. Eppure, nonostante il suo pensiero fosse di tipo deduttivo, non fu mai sperimentale: la medicina rappresentava per lui un’arte compiuta, che aveva già raggiunto i suoi limiti, e che doveva nutrirsi della sola argomentazione logica a partire da segni clinici. Ciò non escludeva l’osservazione (come quella dello sviluppo embrionale, effettuata da Polibio, a partire dallo studio parallelo di 20 uova di gallina, o la dissezione di un cranio di capra affetta da capostorno, operata dallo stesso Ippocrate per studiare l’epilessia umana), ma questa doveva servire solamente a confortare a posteriori una teoria che non poteva essere contestata.
    In questa fase il ricorso all’analogia, come strumento sia retorico che euristico, diviene un’operazione sistematica. L’analogia si offriva come il mezzo più potente per rappresentare l’invisibile a partire da cose visibili. Già i presocratici la utilizzavano: Empedocle aveva paragonato il meccanismo della respirazione al movimento dell’aria nella clessidra. Nella Collezione ippocratica, dove la misura non esiste e la “qualità” regna sovrana, l’esperienza comune serviva a illustrare il pensiero, a vivificarlo con immagini concrete. La nutrizione e l’accrescimento dell’embrione vengono così messi in relazioni a quelli di un vegetale piantato di fresco, che ricava nutrimento dalla terra come l’embrione dal corpo materno, e le cui proprietà dipendono sì dalle semenze ma anche dalla natura del “suolo”.
    Si capisce, di fronte agli errori logici di queste dimostrazioni per analogia, la reticenza di Platone o di Aristotele di fronte all’idea della sperimentazione biologica. Per Platone la vera conoscenza può derivare solo da idee generali e non dall’esperienza sensoriale; tanto più che è cosa crudele violare la natura per estorcerle delle risposte.
    Aristotele condivide questa concezione, ma si distacca dall’intransigente idealismo platonico in virtù della sua curiosità di fronte all’immensa varietà degli oggetti naturali. Nella sua attività di naturalista ha descritto molti fatti in modo corretto, ma ha fatto anche errori clamorosi che una semplice preoccupazione di tipo osservativo avrebbe consentito di evitare. Egli disprezzava generalmente tutti gli aspetti quantitativi dei fenomeni, e riteneva che non si potesse provare una ipotesi generale mediante l’analisi delle sue conseguenze particolari: la vittoria dell’epistemologia aristotelica avrebbe messo fine a ogni velleità di interrogare la natura attraverso procedimenti sperimentali, soprattutto allorché la scolastica medievale ebbe il sopravvento.
    Ciononostante uno dei suoi discepoli, Stratone di Lampsaco, aveva sostenuto l’idea che l’osservazione aveva la meglio sul ragionamento anche quando veniva eseguita in condizioni artificiali. E, nella stessa epoca, i medici alessandrini Erofilo e Erasistrato, di cui conosciamo l’opera solo grazie a qualche frammento o tramite citazione tendenziose, si abbandonavano a sistematiche osservazioni di anatomo-fisiologia. Erofilo avrebbe misurato la frequenza del polso mediante un orologio ad acqua, graduato a seconda dell’età del soggetto. Quanto a Erasistrato, gli si deve quello che Grmek considera “il più bell’esperimento di fisiologia della antichità”, portato alla luce dalla scoperta di un papiro greco del II sec. d. C. Il confronto tra il peso di un uccello lasciato senza nutrimento e quello dei suoi escrementi aveva fornito una conferma sperimentale alla sua teoria della traspirazione insensibile (secondo la quale emanazioni invisibili si staccherebbero continuamente dal corpo e, per rimpiazzare la sostanza perduta, interverrebbe il nutrimento come bisogno fondamentale). In questo esempio ci sono tutti gli ingredienti di un vero e proprio esperimento, ma Erasistrato non fornisce informazioni numeriche, a riprova del primato del qualitativo nel pensiero antico. Inoltre, queste innovazioni non riuscirono ad imporsi: sembra proprio che si sia in presenza di quella che Grmek chiama una “rivoluzione epistemologica mancata”.
    In epoca romana si assiste al confronto tra diverse correnti di pensiero che si costituiscono formalmente come sette mediche. I “dogmatici” restano fedeli allo spirito ippocratico: l’esperimento è importante per la pratica medica, ma il vero sapere medico può essere fondato solo sul ragionamento. “I metodici” non si interessano alle” cause nascoste” come i dogmatici, ma non trascurano il ragionamento, come fanno invece gli “empirici”. Questi ultimi, ispirati allo scetticismo filosofico, non si interessano al vero sapere, inaccessibile per principio. Il loro ricorso all’esperimento non ha il valore di un prova capace di smentire un’opinione. L’insuccesso di una cura non è la dimostrazione dell’inefficacia di un rimedio, e la medicina resta un’arte congetturale poiché il determinismo degli eventi naturali non è considerato come assoluto.
    Galeno (129-210) di Pergamo si situa all’incrocio di tutte queste correnti, proponendo una medicina eclettica che combina l’esperienza clinica di Ippocrate, le acquisizioni anatomo-fisiologiche degli alessandrini, la logica e la metafisica aristotelica, compenetrata dalle dialettiche combinate del platonismo e dello scetticismo. Per questo egli si poneva sulla vetta dell’euristica antica, sia in teoria che in pratica. Ostile agli empirici, che rifiutano il beneficio della riflessione teorica, è nondimeno convinto che la scoperta delle qualità dei farmaci semplici non possa essere raggiunta se non attraverso l’esperienza. Si affaccia in lui quello che potremmo chiamare il ragionamento sperimentale quantitativo, ad esempio nella sua descrizione della formazione dell’urina attraverso la valutazione del rapporto tra quantità di liquido consumato e quantità di urine eliminate. Gli esperimenti eseguiti sugli esseri viventi sono impressionanti, per numero e qualità: in questo senso Galeno oltrepassa tutti gli autori dell’Antichità. Se non ha sezionato cadaveri umani si è d’altro canto abbondantemente servito di animali vivi per studiare il funzionamento degli organi. Convinto dell’importanza basilare del linguaggio per la condizione umana ha studiato con attenzione particolare l’anatomo-fisiologia della regione glosso-laringale, dimostrando l’esatto ruolo dei diversi muscoli in questa regione. I suoi esperimenti sulla sezione in serie del midollo spinale e dei nervi rachidiani sono ammirevoli per semplicità e per il valore dei risultati ottenuti. Uno dei suoi capolavori è senza dubbio l’esperimento in vivo dell’origine dell’urina e della funzione degli ureteri. La sua gigantesca opera ha dominato la medicina occidentale per più di un millennio, finendo col diventare il simbolo di un conservatorismo fossilizzato, anche quando le sue realizzazioni nell’ambito della sperimentazione biologica erano cadute nell’oblio. La tradizione galenica fu in seguito ferocemente combattuta, ma il ragionamento che risale a Galeno fu probabilmente la fonte delle idee che portarono Harvey alla scoperta della circolazione del sangue. Si è dovuto attendere il XIX secolo perché le sue straordinarie capacità tecniche venissero riconosciute.
    Un capitolo dell’opera è dedicato alla sperimentazione “a rischio della vita umana”. Grmek affronta qui diversi problemi, tra cui quello della sperimentazione tossicologica su cavie umane. Ovviamente sono riportati i celebri esempi di Mitridate e Cleopatra. In senso generale sembra che fosse perfettamente consentito ad una autorità di ordinare un esperimento su dei criminali.
    Un altro problema che suscita non poco orrore riguarda la dissezione anatomica di prigionieri viventi, che una certa tradizione attribuisce agli anatomisti alessandrini. Disponiamo in particolare della testimonianza molto posteriore di Celso, la cui attendibilità è stata abbondantemente discussa dagli storici della medicina. Per Grmek non c’è ragione di metterla in dubbio, ma quello che la testimonianza riporta costituisce, secondo lui, un episodio straordinario e di breve durata. Occorreva che i medici alessandrini capissero che l’organizzazione del corpo umano è la stessa sia sull’organismo vivente che sul cadavere, e che il corpo umano funziona seguendo gli stessi principi del corpo animale. Una volta stabilito questo, la ricerca sarebbe riapprodata, nel corso dei secoli, all’esame esclusivo del corpo umano.
    Nonostante l’apparenza questo piccolo volume, sorretto da una erudizione impeccabile, costituisce un contributo essenziale alla storia della medicina e delle scienze biologiche. Si dimostrerà molto utile per tutti coloro che cercano di comprendere la genesi dello spirito scientifico moderno e il problema del rapporto tra razionalità e prova dei fatti. In questa prospettiva sarebbe utile poter disporre di uno studio comparato della maniera in cui questo rapporto è stato concettualizzato in seno alle differenti culture, in particolare nell’ambito delle medicine colte, come la medicina ayurvedica indiana o la medicina cinese.
    Uno dei contributi di Grmek è quello di farci vedere, attraverso una semplice valutazione del cammino che porta da Ippocrate a Galeno, che la medicina occidentale si iscrive, fin dalla sua nascita e malgrado l’impossibilità di superare un Rubicone metodologico, all’interno di un sapere nettamente cumulativo.

    (Traduzione dal francese di Marina Marrazzi)

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