Il cervello non ha genere

Il denaro non è molto (2000 euro da investire in ricerca entro il 2007), la soddisfazione è molto di più: Raffaella Rumiati, docente di neuropsicolgia e coordinatrice del settore di neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste, ha vinto il Mentorship Award 2006, il premio destinato dal gruppo americano Women in Cognitive Science alle ricercatrici che abbiano contribuito a sostenere le carriere di studentesse nel settore delle neuroscienze. Cosa che Rumiati fa da tempo, convinta com’è che un maggior numero di ragazze nel campo scientifico non possa che fare del bene alla ricerca italiana. Non tanto perché sia necessario lo sguardo femminile sulle neuroscienze: semplicemente perché si toccano con mano le differenze nelle opportunità di lavoro e di carriera per le giovani scienziate, e si ritiene doveroso fare qualcosa per eliminarli. In effetti, agli studi di genere Rumiati crede fino a un certo punto. Tanto che al prossimo convegno dell’Associazione Donne e Scienza, a Pavia dal 21 al 23 settembre, dirà quello che pensa su “Differenze cognitive tra donne e uomini: scienza o mito?”.

Professoressa, fa pensare il fatto che a incoraggiare la scienza al femminile nel nostro paese sia un’associazione americana…

“Si sa che oltre oceano le donne sono più organizzate e in grado di fare lobbying. Da noi, soprattutto in ambito accademico, ci sono meno mezzi e finanziamenti per aiutare le giovani ricercatrici, e una minore capacità di fare pressione sulle istituzioni affinché incoraggino le donne a intraprendere la carriera scientifica. Ovviamente il premio è importante a livello simbolico L’idea delle americane è quella di sostenere tutte le donne che hanno raggiunto una certa posizione a impegnarsi nei confronti delle nuove generazioni”.

In Italia le ragazze non sembrano propense ad iscriversi alle facoltà scientifiche. Secondo lei da cosa dipende?

“Diciamo che in Italia nessuno è propenso ad iscriversi a Matematica, Fisica, Chimica… A Medicina è diverso, le studentesse sono numerose, ma se poi si dà un’occhiata negli ospedali si scopre che nessuna di loro riesce a raggiungere un posto di comando. Di chi è la colpa? Come nel tango, che si balla in due, questo è un doppio problema. Certamente gli uomini non lasciano facilmente le responsabilità alle donne, e in campo accademico ci sono ancora molti pregiudizi e velate discriminazioni nei nostri confronti. Ma proprio guardando alle esperienze americane, è anche vero che noi fatichiamo ad imporci”.

Al convegno dell’Associazione Donne e Scienza lei parlerà del mito delle differenze cognitive tra donne e uomini. Che cosa intende?

“Dal mio punto di vista, le differenze tra donne e uomini esistono ma sono molto piccole: penso per esempio all’altezza. Quando però andiamo ad esaminare le differenze del cervello, e poi quelle cognitive, la materia si fa molto più vaga. Gli studi che hanno cercato di esplorare le differenze tra i sessi nel cervello sono stati condotti su gruppi di persone, e riportano valori medi. Ma molte di queste differenze sono rintracciabili anche all’interno dello stesso gruppo. E quando, nel mio lavoro di ricerca, ho cercato di rintracciare queste diversità, non ho ottenuto gli stessi risultati di chi crede nel paradigma della differenza”.

Che tipo di studi ha condotto?

“In particolare mi sono occupata di lesioni cerebrali. Si dice che il linguaggio e il controllo motorio siano lateralizzati nell’emisfero sinistro, per cui una lesione in questa regione può avere conseguenze su queste due funzioni. Alcuni studi hanno mostrato che nelle donne il corpo calloso (cioè le fibre che connettono i due emisferi) è più grosso: e si è dedotto che nel sesso femminile una lesione all’emisfero sinistro risultasse meno grave dal punto di vista della disabilità. Quando ho cercato di verificare questa cosa, non ho trovato nulla del genere: dopo una lesione, le donne non mostrano disabilità più leggere. Voglio dire che fare studi controllati in questo settore è estremamente difficile. E dunque bisogna stare attenti a non restare prigionieri del ‘pregiudizio sul pregiudizio’. Soprattutto quando poi queste ricerche vanno ad influenzare le politiche scolastiche. Negli Stati Uniti, per esempio, si disse a un certo punto che le ragazze andavano meglio nelle materie scientifiche quando venivano interrogate in presenza di altre ragazze, senza i compagni maschi. Detto fatto, si cominciarono a progettare classi femminili. E’ un’assurdità provocata dal voler inseguire a tutti i costi il pregiudizio di genere”.

Il dato di fatto, però, resta: le donne che si dedicano alla scienza sono davvero poche.

“Sì, ma non c’è alcuna differenza biologica che lo spieghi in modo inequivocabile. Io credo che sia molto più influente la pressione culturale che vuole le donne senza abilità spaziali o matematiche: parlo delle pubblicità televisive che mostrano donne incapaci di parcheggiare, e dei genitori che non si preoccupano se la figlia va male in fisica ‘perché non è roba da femmine’. In ogni caso, il punto è un altro: se pure esistono delle differenze, e io credo che queste siano minime, bisogna lavorare per abbatterle. In Inghilterra hanno studiato degli interventi per conoscere e ridurre il gap tra i sessi nelle scelte accademiche. In Italia non mi pare”.

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