Era un giorno di maggio del 1986 nella fitta selva amazzonica, al tramonto. E il capo della tribù degli indios Secoyas disse a suo figlio: “Regala al nostro amico un poco di yagé”. L’ospite era il californiano Loren Miller, presidente della società farmaceutica International Plant Medicine Corporation. Tornato negli Stati Uniti, Miller brevettò la pianta ricevuta in dono: numero 5.751. A suo dire, si trattava di una nuova varietà d’ayahuasca o yagé, un rampicante che cresce nella foresta amazzonica, considerata sacra e consumata da più di 400 tribù indigene in Perù, Equador, Colombia e Brasile.
Oggi, anche sull’onda della nuova moda che spinge i bogotani “bene” a consumare yagè sotto la guida di sciamani trasferitisi nella capitale, si riaccende la polemica sul “furto” statunitense della pianta sacra. Il brevetto ottenuto da Miller, infatti, è una patente di varietà che concede il monopolio sull’ayahuasca e sulle piante che saranno riprodotte asessualmente da questa. Non è un brevetto su una formula o su una sostanza chimica estratta dalla pianta, bensì sulla pianta stessa che Miller sostiene di avere “scoperto”. Negli Usa infatti chiunque può brevettare una pianta se dimostra che si tratta di una nuova varietà. In questo modo il governo nordamericano ricompensa gli agricoltori col diritto esclusivo alla produzione e vendita di nuovi alimenti. Tuttavia, secondo William Anderson, direttore dell’erbario dell’Università del Michigan, non c’è stata nessuna innovazione dato che gli indios Sionas e Secoyas coltivano e consumano l’ayahuasca da secoli.
La questione riporta ancora una volta l’attenzione sulla difficoltà di adattare un sistema come quello dei brevetti al mondo delle nuove tecnologie, soprattutto le biotecnologie. Negli Usa il sistema dei brevetti sulle piante nacque nel 1930 con il Plant Patent Act che tutela i diritti di chi inventa o scopre, e riproduce per via asessuata, una varietà vegetale distinta e sconosciuta. Se all’origine il sistema era pensato per incentivare l’introduzione di nuove varietà agricole più redditizie, oggi viene usato appunto per brevettare vegetali che, sebbene sconosciuti nei paesi ricchi, sono parte di culture e tradizioni secolari degli indigeni. Lo squilibrio nello sfruttamento di queste conoscenze, senza alcun beneficio per le comunità native, è eclatante: se il 90 per cento del germoplasma, cioè la collezione delle varietà delle diverse specie vegetali utilizzata per i progetti di miglioramento genetico, è costituito da piante originarie del Terzo Mondo, solo l’1 per cento dei brevetti è concesso a chi vive nei paesi poveri. Gli indios non si oppongono di certo alla ricerca di nuove cure per l’umanità. Ma pretendono almeno il rispetto della propria diversità culturale, dei propri territori e delle proprie conoscenze.
L’ayahuasca è il principale ingrediente di una bevanda con effetti allucinogeni usata dai popoli indigeni dell’Amazzonia durante i rituali religiosi. Gli sciamani la assumono quando devono risolvere un conflitto, rispondere alle richieste di un gruppo confinante, per scoprire le cause delle malattie, sapere se arrivano estranei o accertarsi della fedeltà della propria moglie.
Per Antonio Jacanamijoy, presidente del Coica (Coordinamento delle organizzazioni indigene della regione amazzonica), “la commercializzazione di un elemento delle cerimonie religiose, rappresenta per gli indios amazzonici un grave affronto”. Secondo la tradizione, infatti, solo gli sciamani possono preparare la bevanda rituale e nessun membro della comunità può berla senza la guida di uno di loro. L’ayahuasca è per gli indigeni dell’Amazzonia ciò che la coca è per i loro cugini andini: una pianta sacra, il cui uso è controllato dai saggi della tribù per il servizio della comunità, e senza alcun fine di lucro. Insomma, secondo gli indios è un po’ come se qualcuno volesse brevettare la particola e il vino dell’Eucarestia.
Naturalmente, sullo sfondo di vicende come quella dell’ayahuasca vi sono gli interessi milionari delle industrie farmaceutiche che commercializzano i medicinali prodotti a partire dalle piante native. Eppure l’Articolo 29 dell’Onu sui Diritti dei popoli indigeni recita: “I popoli nativi hanno il diritto al riconoscimento della piena proprietà e controllo del proprio patrimonio culturale ed intellettuale. Hanno il diritto a misure speciali per lo sviluppo e la protezione delle loro scienze, tecnologie e manifestazioni culturali, includendo il patrimonio genetico umano e le proprie conoscenze sui benefici effetti di fauna e flora nella cura delle malattie”.