Il 6 agosto del 1945 si annunciava, in Giappone, come una calda giornata estiva. Alle 8,45 tre bombardieri americani comparvero nel cielo di Hiroshima, per quella che sembrava una normale azione di guerra. Da tempo, ormai, gli aeroplani alleati colpivano le città del sol levante e la loro improvvisa presenza non suscitò un particolare allarme. Uno di essi, invece, l’Enola Gay, lanciò la prima bomba atomica della storia. Fu un atto terrificante: le case vennero rase al suolo per un raggio di due chilometri dall’epicentro dell’esplosione, si ebbero 80.000 morti, 38.000 feriti e 13.000 dispersi. I sopravvissuti morirono, in seguito, per effetto delle lesioni interne.
”Improvvisamente – ha scritto Tamiro Hara, un testimone colpito dalle radiazioni atomiche e che si sarebbe suicidato nel 1951, sopraffatto dalla sofferenza e dai ricordi- ricevetti un colpo sulla testa e tutto diventò oscuro davanti ai miei occhi. Gettai un grido e alzai le braccia. Nelle tenebre non sentivo che un sibilo di tempesta. Non arrivai a comprendere cosa fosse successo. Il mio primo grido, l’avevo inteso come se fosse stato gettato da qualcun altro. Poi il mondo intorno mi ritornò visibile, benché ancora non nettamente, ed ebbi l’impressione di trovarmi sui luoghi di un immenso cataclisma. Dietro la spessa nuvola di polvere apparve un primo spazio blu, seguito ben presto da altri spazi blu sempre più numerosi. Brevi fiammate cominciarono a sprizzare dall’edificio vicino, un deposito di prodotti farmaceutici. […] Fumate vorticose si elevavano da tutte le case in rovina”.
Questo panorama di desolazione e di morte, popolato da cadaveri orrendamente mutilati e da persone agonizzanti che erano attanagliate da un’arsura inestinguibile, divenne d’un tratto livido perché prese a soffiarvi una massa d’aria trasparente. “Ebbi appena il tempo – ha ricordato ancora Tamiro Hara – di gridare: “una tromba!” che già un vento terribile ci colpì. I cespugli e gli alberi si misero a tremare; alcuni furono proiettati in aria da dove ricaddero come saette sul tetro caos. Si aveva l’impressione che il riflesso verde di un orribile inferno venisse a stendersi al di sopra della terra. Dopo il passaggio della tromba, ben presto il crepuscolo invase il cielo”.Anche Paul Tibbet, che comandava l’Enola Gay, rimase impressionato dall’esplosione.”Prima vidi formarsi – disse più tardi – un globo di polvere, la città intera tremare come se scossa da un sisma, poi vidi alzarsi il gambo del fungo verso di noi […] era una colonna che saliva velocissima portando su con sé edifici, case, tetti, alberi che volavano come rami presi in una tromba d’aria”.Tre giorni dopo, il 9, una seconda bomba, dagli effetti altrettanto devastanti, fu sganciata su Nagasaki.
Con il suo lancio, ha scritto Robert Jungk, “lo stato maggiore americano si proponeva soprattutto una cosa: dare all’avversario l’impressione che gli USA possedessero già un intero arsenale di bombe atomiche, per indurlo così a gettare immediatamente le armi”: un’opinione rispettabile, ma che non appare, oggi, del tutto esauriente. La decisione di dare il via al cosiddetto Progetto Manhattan, infatti, era stata presa da Roosevelt, com’è noto, nel 1941. Sollecitato da un gruppo di scienziati, tra cui l’italiano Enrico Fermi, emigrato in America dall’Italia dopo la promulgazione delle leggi razziali. Albert Einstein gli aveva inviato, già nel 1939, una lettera, per segnalargli che i nazisti erano impegnati nella scissione dell’atomo e quali pericoli potevano derivarne. Nel giugno del 1945, tuttavia, la Germania era ormai sconfitta. Alcuni di coloro che a Los Alamos avevano lavorato al progetto, tormentati dai dubbi circa l’impiego futuro della loro scoperta, consegnarono al ministro della guerra, Henry Stimson, un rapporto, nel quale sconsigliavano l’uso dell’atomica contro il Giappone e suggerivano una dimostrazione incruenta della nuova arma.
Roosevelt, però, che proveniva dai raffinati ambienti intellettuali bostoniani, era morto da poco, il 12 aprile, e gli era succeduto il suo vice, il democratico Henry Truman, figlio di un agricoltore del Missouri, che, più schematico nelle proprie convinzioni, non ascoltò le loro parole. Secondo lo storico inglese Basil Liddel Hart, uno dei maggiori studiosi della Seconda Guerra Mondiale, non c’era alcun bisogno di usare l’atomica. Nella primavera del 1945, con la riconquista americana delle maggiori isole del Pacifico, il conflitto era ormai, a suo parere, concluso. “I campi d’aviazione – ha scritto – distavano infatti meno di 640 chilometri dal Giappone, appena un quarto della distanza che corre tra questo e le Marianne. Danni terribili erano già stati inflitti da formazioni di bombardieri provenienti dalle Marianne: l’efficacia degli attacchi era di molto aumentata dopo la primavera, quando gli Americani passarono da incursioni diurne a quote elevate, con bombe altamente esplosive, a incursioni notturne, da quote più basse, con bombe incendiarie. Il 9 marzo, in un solo attacco notturno, oltre 1600 tonnellate di bombe incendiarie furono sganciate sulla capitale, una superficie di circa 39 chilometri quadrati era andata distrutta e 185 mila persone furono uccise o ferite.
Alla fine di maggio, 3 milioni di abitanti, a Tokyo, erano rimasti senza casa, e in agosto i senza tetto delle 66 città che avevano subito i bombardamenti erano oltre 9 milioni”.Il governo giapponese del primo ministro Suzuki, entrato in carica nell’aprile del 1945, era pronto a firmare la resa, a patto che fosse rispettata la persona dell’Imperatore, sacra nella tradizione nipponica. L’ultimatum congiunto cino-anglo-americano di Potsdam del 26 luglio 1945, che ne dettava le condizioni, ignorò, invece, tale richiesta: esso prevedeva l’occupazione militare delle maggiori isole del paese, fino a che non fosse stato possibile “eleggere un governo pacifico e responsabile”, la punizione dei criminali di guerra, il disarmo delle forze armate e il pagamento delle riparazioni. Nel momento in cui era stato redatto, Truman era informato che il 16 luglio ad Alamagordo, nel Nuovo Messico, la sperimentazione della prima bomba atomica era riuscita. In quest’ambiguo silenzio, che non permise di giungere a un accordo immediato, venne presa la decisione di usare, il 6 agosto, la nuova e terrificante arma. Sempre secondo Liddel Hart, il suo effetto sul governo giapponese non fu risolutivo.
Altrettanto determinante, per la resa, va considerata la dichiarazione di guerra, l’8 agosto, dell’Unione Sovietica al Giappone e l’invasione, il giorno seguente, della Manciuria. Solo subito dopo, infatti, il primo ministro Suzuki, a nome del Governo, annunciò per radio la volontà di arrendersi, purché gli fosse data l’assicurazione che sarebbe stata rispettata la sovranità dell’Imperatore: il punto trascurato dall’ultimatum e che Truman accettò, questa volta, con celerità, modificando i termini della resa incondizionata. “Perché allora – si chiede lo studioso – fu usata la bomba atomica? La richiesta di Stalin a Potsdam di partecipare alla spartizione del Giappone fu molto imbarazzante e il governo degli Stati Uniti si preoccupò di evitare tale eventualità.
Una seconda ragione fu rivelata dall’ammiraglio Leahy: “Gli scienziati ed altri volevano sperimentarla, date le enormi somme di denaro che erano state investite nel progetto: due miliardi di dollari”. Uno dei più alti ufficiali interessati all’operazione atomica, puntualizzò ancora più chiaramente la questione: “Era importante che la bomba atomica fosse un successo. Si era speso tanto per costruirla[…] Tutte le persone interessate provarono un sollievo enorme quando la bomba fu finita e sganciata”. Ci fu, d’altra parte, nelle parole con le quali Truman in persona annunciò l’avvenuto bombardamento, un tono trionfalistico, in cui risuonava, da un lato, l’aspro sapore della vendetta (“I Giapponesi iniziarono la guerra dell’aria a Pearl Harbor. Essi sono stati ripagati molteplicemente. E la fine non è ancora venuta”) e, dall’altro, l’esaltazione della potenza americana. Con una sintesi efficace, egli poté ricordare al mondo: “Abbiamo speso due miliardi di dollari nel più grande azzardo scientifico della storia e abbiamo vinto”. In effetti, alla fine del conflitto, gli Stati Uniti si presentavano come una grande potenza mondiale e si apprestavano a sostituire l’Inghilterra, stremata dal lungo e pesante sforzo bellico, nella leadership del mondo occidentale.
Essi non solo erano stati in grado di combattere con successo su due fronti, grazie ai loro potenti mezzi militari, ma, in virtù delle ingenti risorse economiche, di cui disponevano, e alla concentrazione di intelligenze che ospitavano, potevano usufruire di una tecnologia che aveva alla base una ricerca scientifica d’avanguardia. Né va dimenticato che il loro diffuso benessere si basava, anche, su uno sviluppo agricolo, il quale li rendeva i maggiori produttori di frumento, di riso e di carne al mondo. Da ultimo, il way of life americano, diffuso dai film e dalla musica, trasmetteva l’immagine ottimistica di una società libera, nella quale potevano convivere etnie diverse, in un sistema che premiava il merito, senza, per questo, trascurare la solidarietà e la giustizia sociale. L’uso della bomba atomica, dunque, servì soprattutto, a prescindere dai fini bellici contingenti, per dimostrare al mondo la superiorità americana di fronte agli altri interlocutori internazionali, così che emergesse dal conflitto una sola superpotenza.
Non a caso, tale significato fu immediatamente colto dall’Unione Sovietica, dove il 20 agosto, appena quindici giorni dopo il lancio su Hiroshima, Stalin insediò un Comitato speciale per la bomba atomica, la cui gestione venne affidata a Lavrenti Beria. Dopo quel 6 agosto del 1945, in breve, il mondo non fu più lo stesso. Hiroshima divenne uno spartiacque della storia contemporanea. Da lì a poco, nel febbraio del 1946, l’incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Mosca, George F. Kennan, inviò al Dipartimento di Stato un rapporto, detto long telegram per la sua mole (circa ottomila parole), in cui individuava, nell’Unione Sovietica e nel comunismo internazionale, il nemico della civiltà occidentale, da contenere con una ferma resistenza “in ogni punto dove dà segno di espandersi a danno degli interessi di un mondo pacifico e stabile”, così da sottoporlo, alla lunga, ad “un effetto disintegrante ed erosivo”. Nello stesso periodo, in marzo, Churchill pronunziò a Fulton, nel Missouri, alla presenza di Truman, il famoso discorso con il quale denunciò che “una cortina di ferro” stava circondando i paesi comunisti, per renderli impenetrabili al confronto con l’Occidente, ed invocò una politica di forza, l’unica che, a suo dire, i sovietici avrebbero rispettato. Un anno dopo, infine, il presidente americano prese la parola davanti ai due rami del Congresso, riuniti in seduta comune: chiese lo stanziamento di 400 milioni di dollari, da destinare ai governi della Grecia e della Turchia, per metterli in grado di contrastare la guerriglia comunista sul proprio territorio, ed annunciò l’impegno degli Stati Uniti a difendere “i popoli liberi del mondo” dalle aggressioni del “totalitarismo”.
La minaccia atomica cominciò a pesare, da allora in poi, sui rapporti internazionali e divenne presenza angosciosa, nelle vicende dell’umanità, per circa cinquant’anni, dal momento che anche l’Unione Sovietica fece scoppiare, il 23 settembre del 1949, una propria bomba e lanciò, nell’agosto del 1957, il suo primo missile balistico intercontinentale. La messa in orbita dello Sputnik infine, realizzata dai russi il succes-sivo 4 ottobre, fece nascere, negli Stati Uniti, il timore che, per la prima volta nella storia, la sicurezza del loro territorio potesse correre un serio pericolo. A sua volta, d’altronde, l’Unione Sovietica si era andata rivelando un regime autocratico e totalitario, che si proponeva di controllare l’esistenza dei cittadini, per indirizzarla verso gli obiettivi fissati dai vertici dello Stato.
Vi trionfava il culto della personalità di Stalin, che non ammetteva dissensi ed era sostenuto da un apparato di burocrati, i quali si dimostrarono, alla lunga, incapaci di assumere iniziative e preoccupati, soprattutto, della propria sopravvivenza, da assicurare, se occorresse, anche con metodi polizieschi. Fu quanto l’opinione pubblica internazionale ebbe modo di conoscere attraverso l’opera di alcuni scrittori come Boris Pasternak, il cui Dottor Zivago fu pubblicato all’estero e rimase clandestino in patria, e Aleksandr Solzenitsin, che nel 1962 diede alle stampe la Giornata di Ivan Denissovic, testimonianza impressionante della realtà dei campi di concentramento sovietici, destinati a ricevere i dissidenti del regime.Il rapporto segreto di Nikita Kruscev, letto nel febbraio del 1956 al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, con il quale il nuovo segretario denunciò i crimini del dittatore georgiano, morto tre anni prima, destò clamore in Occidente, allorché vi fu conosciuto in maniera fortunosa, e venne interpretato come la conferma di un regime che aveva tradito le sue origini libertarie, per volgersi in una sanguinosa dittatura.
Il documento, d’altra parte, fu accolto anche con speranza, perché sembrò avviare, nei paesi dell’Est, una fase di ripensamento e di apertura a una maggiore democrazia partecipativa del sistema, che la repressione della rivolta d’Ungheria nel 1956 e della Primavera di Praga nel 1968, anno fatidico della contestazione giovanile in Europa e in America, rivelò ben presto illusoria. In tale quadro complessivo, le due superpotenze, ciascuna alla guida di un blocco di paesi alleati, sembravano fatalmente destinate a uno scontro, che avrebbe avuto esiti letali per l’intero pianeta. Tutte le altre nazioni, ha scritto Eric J. Hobswabm, “eccetto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano state relegate al rango di potenze di seconda o terza classe nello scenario della politica internazionale, perché le loro relazioni reciproche non erano più autonome e comunque non oltrepassavano l’interesse locale”.
La denuncia del pericolo giunse da molte parti. Il cinema, in particolare, a più riprese, ne diede diffusione, rendendola popolare con film di successo, come Il dottor Stranamore di Stanley Kubrik, del 1963 o Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner, del 1968, che seppero interpretare le inquietudini di quel tempo. Proprio la consapevolezza del rischio estremo, però, permise di evitare la collisione. Le guerre, che pure ci furono, dalla Corea (1950-53) al Vietnam (1961-75), rimasero circoscritte entro ambiti locali e i conflitti, come quello dei missili a Cuba (1962), risolti con trattative diplomatiche. Ciascuna delle due superpotenze, inoltre, si astenne dall’intervenire, almeno in via ufficiale, nelle questioni interne ai paesi del blocco avversario, rispettando la ripartizione bipolare del mondo. Questo fece sì che, pur nel confronto, momenti di crisi si alternassero ad altri di relativa distensione, i quali furono accolti con sollievo e fecero sperare in una possibile “coesistenza pacifica”.
A seguito della crisi dei missili a Cuba, infatti, fu allacciata la cosiddetta “linea rossa” tra la Casa Bianca e il Cremlino, la quale doveva evitare che interpretazioni sbagliate delle mosse di uno dei due interlocutori potessero dar luogo al conflitto. Dieci anni dopo, nel 1972, venne firmato, a Mosca, un trattato di non proliferazione nucleare (Salt), con il quale le parti si impegnavano a mantenere, nei successivi cinque anni, i loro armamenti entro determinati tetti; accordo che venne rinnovato nel giugno del 1979, introducendo ulteriori limitazioni. Ciò malgrado, restava in piedi e si acuiva la contrapposizione ideologica fra due sistemi diversi e opposti, di cui il “muro”, che era stato eretto a Berlino il 13 agosto del 1961, rappresentava il simbolo, ciascuno dei quali contava, alla fine, di riuscire vincitore sull’altro. Fatto salvo questo dato di fondo, le strategie, per ottenere il risultato, variarono a seconda del momento e degli uomini.
La “nuova frontiera”, indicata nel 1960 alla società statunitense, con una formula suggestiva, da John F. Kennedy, quale traguardo da raggiungere in alternativa al comunismo sovietico, consisteva in un maggior dinamismo sociale interno, al quale doveva corrispondere un’egemonia internazionale americana. Bisognava “pagare ogni prezzo, sopportare ogni peso, affrontare ogni difficoltà, sostenere ogni amico, opporsi a ogni nemico – affermò, mediante una buona dose di retorica, il giovane presidente americano – per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà”. Diffondere, appunto, la libertà, ha osservato di recente Giampaolo Valdevit, fu un altro dei messaggi diretti alla società americana e a quelle straniere per indicare che [era] iniziato un cambio di marea, per cui a propagarsi [ era] la libertà e non più il comunismo”.Venti anni dopo, un altro presidente, il repubblicano Ronald Reagan, definì, invece, l’Unione Sovietica “l’impero del male”.
Egli, ha commentato Giuliano Procacci, faceva “appello a sentimenti e riflessi profondamente radicati nella tradizione nativista e conservatrice americana: l’individualismo del self made man, che riesce a costruire la sua vita e il suo benessere con le sue sole forze e che disdegna l’aiuto dello stato e dell’assistenza pubblica, la diffidenza verso tutto ciò che non è americano e in particolare e soprattutto il rigetto e la paura del comunismo inteso come fenomeno internazionale e onnicomprensivo. Tutti coloro che nel mondo si opponevano all’America o i cui comportamenti fossero giudicati una minaccia per la sua sicurezza erano comunisti o, nell’ipotesi più benevola, strumenti inconsapevoli di Mosca”.In altre parole, è possibile cogliere, nelle dichiarazioni dei presidenti americani, a partire da Truman e quale che fosse il loro partito, una linea di politica estera, che aveva in comune il concetto di supremazia mondiale degli Stati Uniti. Ben a ragione, ha osservato Hobsbawm che “fra i paesi democratici soltanto negli USA i presidenti venivano eletti (come J.F. Kennedy nel 1960) per il loro impegno contro il comunismo, che in termini di politica interna in quel paese era insignificante quanto il buddismo in Irlanda”.
In realtà, l’Unione Sovietica si disgregò non tanto per motivi ideologici, quanto per un’implosione, che riguardava il sistema economico, incapace di fronteggiare i suoi ritardi e le imponenti spese, specie militari, impostegli dalla competizione internazionale. “Il regime – ha scritto ancora Hobsbawm – aveva smesso ogni serio tentativo di modificare un’economia in visibile declino. Comprare grano sul mercato mondiale era più facile che cercare di curare la crescente incapacità dell’agricoltura sovietica di alimentare il popolo dell’URSS. Ungere il motore arrugginito dell’economia per mezzo di un sistema di corruzione e di tangenti generalizzato era più facile che pulirlo e registrarlo, per non dire rimpiazzarlo”. È significativo che l’apparato di potere, la così detta nomenklatura, sia caduto in Russia, dopo anni di dominio assoluto, senza alcuna sommossa popolare o rivolgimento di grandi masse.
Com’è stato scritto, la perestrojka, ossia la ristrutturazione del sistema economico, prevista, sia pure in termini generali, da Gorbaciov, non fece in tempo a confrontarsi seriamente con la realtà del paese. La scomparsa dell’Unione Sovietica ha lasciato, dunque, gli Stati Uniti vincitori della sfida, lanciata nel 1945. Il nemico è stato sconfitto e i suoi governanti ne hanno tratto la conclusione che tocca all’America, in quanto unica superpotenza sopravvissuta a uno scontro di lungo periodo, fare da guida al mondo. Già Bush padre, in un discorso del gennaio 1993, pochi giorni prima di concludere il proprio mandato, aveva affermato: “In un mondo nel quale siamo l’unica superpotenza, ruolo degli Stati Uniti è mobilitare le proprie risorse morali e materiali per promuovere una pace democratica. È la nostra responsabilità. È la nostra occasione per porci in posizione di guida”. Ancora una volta, il cinema ha segnalato con tempestività tale stato d’animo.
Nel Gladiatore di Ridley Scott, prodotto nel 2000, è facile cogliere una comparazione fra la missione imperiale di Roma e quella dei nuovi vincitori, nel segno di una continuità ideale. Resta da chiedersi se, per tale via, la minaccia atomica non possa tornare a farsi reale, dal momento che l’amministrazione di George W. Bush, ora in carica, ostenta la consapevolezza che l’essere l’unica superpotenza, a livello mondiale, comporta anche il compito di usare il proprio arsenale militare, in via preventiva, contro i cosiddetti “Stati canaglia”, i quali rifiutano la leadership americana e ne mettono in pericolo, come ha dimostrato l’attentato del settembre 2001, la sicurezza; e resta ancora da domandarsi, da ultimo, se e quanto tale miscela perversa, di arroganza e di fanatismo messianico, possa riuscire pericolosa, in mancanza di un interlocutore agguerrito.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino 1958.
Basil Liddel-Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Verona 1971.
Maurice Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, Sansoni, Firenze 1974.
Vittorio M. Canuto, Il paradosso nucleare, Il Mulino, Bologna 1989.
Robert Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Il Mulino, Bologna 1989.
Eric J. Hobsbwam, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997.
Giancarlo Giordano, La politica estera degli Stati Uniti, Angeli, Milano 1999.
Giuliano Procacci, Storia del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2000.
Walter Russel Mead, Il serpente e la colomba, Garzanti, Milano 2002.
Giampaolo Valdevit, I volti della potenza. Gli Stati Uniti e la politica internazionale nel Novecento, Carocci, Roma 2004.