È tempo di bilanci per la Dichiarazione del Millennio. Firmata nel 2000 dai capi di Stato e di governo, il documento si poneva obiettivi ambiziosi da raggiungere entro il 2015. Il primo e più importante è quello di sconfiggere la povertà estrema e la fame, ma è essenziale anche garantire l’istruzione, l’uguaglianza dei sessi, la salute materna, ridurre la mortalità infantile, sconfiggere l’Aids e altre terribili malattie e favorire la sostenibilità ambientale e lo sviluppo. Otto punti fondamentali su cui i vertici dell’Onu tornano a discutere oggi (e fino al 22 settembre) al Palazzo di Vetro di New York.
Passi avanti ci sono stati, ma in alcuni paesi il raggiungimento degli obiettivi sembra ancora un miraggio. Colpa di quei paesi, tra cui l’Italia, ancora indietro nel mantenere gli impegni presi davanti alla comunità internazionale. La denuncia arriva dalle ong e dalle associazioni che alla vigilia del summit fanno il punto della situazione e chiedono al governo italiano un rinnovato impegno.
Partiamo da alcuni dati. Il rapporto Sofi “Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo”, realizzato da Fao e Pam, parla di 925 milioni di affamati nel mondo, 98 in meno rispetto al miliardo e 23 milioni del 2009, ma comunque un numero alto, che mette a rischio il raggiungimento di tutti gli altri obiettivi. Progressi si segnalano anche nella mortalità materna che, secondo il rapporto “Trends in maternal mortality” di Oms, Unicef, Unfpa e Banca Mondiale, è calata di un terzo tra il 1990 (546mila decessi) e il 2008 (358mila). Ogni giorno, però, mille donne continuano a morire per complicazioni legate alla gravidanza e al parto, quasi tutte nei paesi in via di sviluppo dell’Africa Sub-sahariana e dell’Asia Meridionale. Il calo equivale infatti a una diminuzione annua di appena il 2,3%, meno della metà di quello necessario per conseguire l’obiettivo del Millennio di ridurre la mortalità del 75% entro il 2015. Anche il tasso di mortalità infantile è sceso di un terzo, secondo il rapporto 2010 “Levels & Trends in Child Mortality” dell’Unicef, passando da 12,4 milioni del 1990 a 8,1 milioni nel 2009. Ma, anche in questo caso, la diminuzione non avviene ancora al ritmo necessario, soprattutto in Africa Sub-sahariana, Asia meridionale e Oceania, per raggiungere l’obiettivo di ridurre due terzi la mortalità entro il 2015. Se andiamo a guardare poi la lotta all’Aids, il maggiore accesso alla terapia antiretrovirale negli ultimi cinque anni ha portato alla riduzione del 10% dei decessi, ma l’obiettivo dell’accesso universale entro il 2010 ai servizi di prevenzione, cura e supporto contro l’epidemia rimane ancora lontano, con 5 milioni di persone che non hanno accesso alle cure, e il 62% dei bambini sieropositivi cui è negata la terapia antiretrovirale pediatrica.
Risultati senza precedenti su più fronti, quindi, ma non all’altezza delle aspettative. Infatti, mentre alcuni dei paesi più poveri hanno raggiunto gli obiettivi intermedi grazie a un impegno concreto, i paesi sviluppati sono ancora indietro nel mantenere le promesse e gli impegni presi. Nel rapporto Scorecard 2010, presentato alla vigilia del Summit, la ong ActionAid ha analizzato le politiche di 28 paesi in via di sviluppo e di 22 paesi Ocse per sconfiggere la fame. Le pagelle dei paesi in via di sviluppo bocciano Burundi, Lesotho, Repubblica Democratica del Congo e Sierra Leone, nei quali il problema dell’accesso al cibo si sta aggravando fin dal 1990. Molto a rilento procedono anche Senegal e Uganda, i quali si stima potranno raggiungere l’obiettivo rispettivamente nel 2042 e nel 2039. Altri dodici stati, invece, si stanno avvicinando al traguardo (fra questi, Brasile, Ghana, Malawi, Vietnam). Bene la Cina, che ha già raggiunto entrambi i target del primo obiettivo: dimezzare il numero di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno e la percentuale di coloro che soffrono la fame. Se si guarda ai paesi Ocse, un po’ tutti hanno tagliato i fondi per la cooperazione a causa della crisi. E l’Italia è il paese con le peggiori performance. Al G8 de L’Aquila il nostro paese si è fatto promotore dell’Aquila Food Initiative, che prevedeva un investimento da parte dei donatori di 22 miliardi di dollari nei prossimi tre anni contro la fame. “L’Italia ha stabilito un impegno su tre anni pari a 427 milioni di dollari e, fino ad aprile 2010, il suo contributo è stato pari a 190 milioni di dollari – si legge nel rapporto – ma tenendo presente che l’impegno annuale del paese in questo settore è mediamente pari a 200 milioni di euro, possiamo affermare che l’Italia non ha ancora contribuito con nessun esborso aggiuntivo alla nuova iniziativa”.
Anche il dossier “Raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Le raccomandazioni della società civile al governo italiano” promosso da Campagna del Millennio Onu, Coalizione italiana contro la povertà, Federazione italiano dello scautismo, Caritas, Uisp-Sportpertutti, conferma il trend negativo dell’Italia. Il governo si è impegnato a destinare lo 0,7 % del proprio Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2015. In base agli obiettivi intermedi fissati dovremmo già aver superato lo 0,51 % e invece siamo solo allo 0,10%. A conti fatti, i nostri investimenti sono scesi dallo 0,22% del Pil del 2008 allo 0,16% del 2009. Serve un inversione di rotta ed è necessario rendere gli aiuti più efficaci, riformando e semplificando le modalità con cui vengono erogati. Bisogna riconoscere ai paesi la possibilità di essere protagonisti delle strategie di sviluppo, stabilire un meccanismo di controllo per assicurare che gli aiuti vengano usati per sconfiggere la povertà e ridurre le spese militari per recuperare le risorse da destinare alla cooperazione.