Superbi nell’acconciatura, eleganti nel portamento, pettinati, vaporizzati e profumati fino all’eccesso. Sono i Vid (Very important dogs), ovvero i cani più belli del mondo, secondo standard internazionali stabiliti da giudici umani. Cani rigorosamente con pedigree che salgono sui podi delle gare di bellezza, indossano collari d’oro, vincono premi e pluridecorazioni. A loro sono dedicati veri e propri manuali che dettano, con dovizia di particolari, le misure di orecchie, zampe e code, nonché la grandezza e la distribuzione delle macchie sul mantello. Sulla base di canoni estetici funzionali, però, ai gusti umani piuttosto che al loro benessere. Questi cani alla moda, infatti, pagano spesso il prezzo della ricerca della razza “perfetta”, che Stephen Budiansky, giornalista scientifico e autore del libro “La verità sui cani” (ed. Hardcover), ha chiamato “eugenetica razzista”. “Le razze”, spiega Barbara Gallicchio, veterinaria e autrice del libro “Lupi travestiti. Le origini biologiche del cane moderno” (Edizioni Cinque), “nascono con la finalità di introdurre caratteri inesistenti nella precedente generazione, caratteri migliorativi: una maggiore vitalità, per esempio, o un miglior senso dell’olfatto”. Fino alla seconda metà dell’Ottocento questa selezione artificiale veniva misurata esclusivamente sulle qualità lavorative dell’animale (da guardia, da caccia, da difesa). In età vittoriana, iniziarono a organizzarsi i primi raduni e a essere formulati i primi standard. “Da allora è la moda a dettar legge. Tanto che ai giorni nostri a fare la fortuna e la sfortuna di un cane è l’estetica, esaltata dai media”.”I problemi”, continua l’esperta, “insorgono con il passaggio di caratteri recessivi sfavorevoli, geni malati che non si manifestano nei genitori. Ne deriva un impoverimento in termini di fitness biologico”. Conseguenza di incroci casuali, non selezionati, quali quelli che si verificano “negli allevamenti intensivi”, denuncia la veterinaria, “dove gli animali sono sfruttati per il valore commerciale che rappresentano, fatti vivere esclusivamente per la riproduzione e poi soppressi: veri e propri lager a scopo di lucro (20 anni fa toccava ai Dobermann, dieci anni fa è stata la volta degli Husky, oggi succede con Labrador, Golden retriever, Terranova, Yorkshire). Ma esistono anche allevamenti selettivi, quelli cioè che nascono per hobby o con finalità espositive. Dove perciò gli animali sono rispettati, anche se non sempre il rispetto è quello dovuto alla loro specie: vivono comunque nei box, escono solo quando lo decide il proprietario, subiscono lo stress della carriera espositiva. I più fortunati sono senza dubbio quelli venduti ai privati”. Il tallone di Achille degli allevatori in buona fede sarebbe dunque la “kennel blindness”, termine che in italiano suona come “cecità da canile” e che significa che la passione per una determinata razza li rende ciechi di fronte ai difetti e alle tare ereditarie che causano nei cuccioli cecità, sordità, handicap vari, condannandoli a una vita breve e dolorosa. “Per questo,” spiega Gallicchio, ” il mestiere dell’allevatore dura in media sei anni: alla lunga si getta la spugna sopraffatti dalle lamentele degli acquirenti e da tutti i cani che vengono riportati indietro perché malati o imperfetti”. Che si tratti di amore cieco o di incroci troppo spregiudicati, il risultato è che i Boxer e i Cocker americani si ammalano spesso di cuore, i Barboni di epilessia e gli Shar-pei, quelli con la tipica pelle a rotoli o a pieghe, di dermatiti croniche. I Terranova, invece, sono soggetti alla displasia dell’anca, del gomito e del ginocchio, oltre che a problemi cardiaci; come pure i Pastori tedeschi, affetti oltretutto da emofilia, mentre i Dalmata possono nascere sordi. “Per non parlare dei Bulldog, che rappresentano una vera aberrazione: usati negli anni passati per combattere contro i tori e selezionati per accentuare la potenza fisica, hanno sviluppato una testa gigantesca (tanto da rendere indispensabile il parto cesareo), gambe corte e inarcate che mal sopportano il peso corporeo e le lunghe passeggiate”. Vi sono poi tutti quei problemi relativi all’ipernanismo e al gigantismo, tipici cioè dei cani che pesano un chilogrammo o poco più e di quelli che raggiungono il quintale, dai Chihuahua ai San Bernardo, per capirci. “Nel primo caso, quello dell’ipernanismo”, continua la veterinaria, “i cani vanno incontro a fragilità ossea, problemi cardiovascolari a carico delle estremità delle ossa, riduzione della volta cranica, ma non del cervello, il che provoca l’aumento della pressione cerebrale interna e il fenomeno delle cosiddette “fontanelle aperte”, punti pericolosi in caso di colpi. Senza tralasciare i problemi riproduttivi e di termoregolazione: sono infatti talmente piccoli da disperdere il calore e sentire sempre freddo. Il gigantismo, al contrario, porta a un cedimento del telaio scheletrico, a disturbi nello sviluppo delle ossa, a scarso dinamismo e temperamento abulico, a patologie cardiache e insufficienze respiratorie, e, anche in questo caso, a uno squilibrio della termoregolazione nel senso però inverso: si surriscaldano eccessivamente e possono anche morire per colpo di calore”. Oggi sono 430 le razze riconosciute dalla Federazione cinologica internazionale. E ognuna ha i suoi malanni: “alcune”, va avanti l’esperta, “sono portatrici di circa 150 patologie, la maggior parte in media ne porta 50-70”. L’unica prevenzione possibile potrebbe venir dai test sul Dna canino. Test molto costosi, finanziati solamente dai club di amatori e praticati soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove si sta tentando di completare il progetto genoma canino. Test finora limitati a una ventina di malattie, che colpiscono una cinquantina di razze: davvero poco se si considera che le patologie a carico dei cani sono circa 400. “In Italia queste analisi, oltre a identificare i marker genetici di talune poche malattie, servono a confermare o disconoscere la paternità dei cuccioli, mentre in Germania è addirittura possibile depositare piccoli frammenti di Dna per evitare future polemiche tra l’allevatore e l’acquirente”. Amore, business o vanità?