Costruire protesi robotiche sempre più simili ad arti naturali. È la sfida che, come vi avevamo raccontato, impegna da tempo i ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna. E i risultati positivi non tardano ad arrivare. Già nel 2009, gli scienziati dell’ateneo pisano, in collaborazione con i colleghi svedesi dell’Università di Lund, avevano messo a punto Smarthand, una mano robotica con quattro motori e quaranta sensori in grado di ridare, o dare per la prima volta, il tatto a chi era privo dell’arto. Oggi, come si legge sulle pagine di Science Translational Medicine, ingegneri e fisici del Sant’Anna sono andati ancora oltre, costruendo un dispositivo con possibilità di movimento e sensori ancora più raffinati.
La mano robotica è stata indossata da un paziente amputato da dieci anni: Stanisa Raspopovic e colleghi raccontano di aver usato la stimolazione elettrica per riattivare le fibre sensoriali residue nel moncone dell’uomo. In sostanza, le informazioni provenienti dai sensori della protesi venivano inviate a microelettrodi impiantati direttamente nel sistema nervoso del paziente. Come si vede nelle immagini, i ricercatori hanno eseguito una serie di esperimenti per testare la capacità della mano di aumentare o diminuire la capacità di presa e misurare forma e rigidità degli oggetti. Il dispositivo, a detta del paziente che l’ha provato, consente di sentire percezioni sensoriali molto simili a quelle di una mano naturale anche senza allenamento particolare, di distinguere le consistenze di oggetti duri, medi e morbidi e di riconoscere le forme base, come il cilindro di una bottiglia o la sfera di una palla da baseball.
I ricercatori, adesso, vogliono rendere la mano sempre più complessa, inserendo sensori che permettano di avvertire anche la temperatura e la trama degli oggetti. E hanno in programma di avviare uno studio clinico pilota con più pazienti per valutare l’efficacia e l’usabilità a lungo termine della tecnologia.
Via: Wired.it
Credits immagine: LifeHand 2/Patrizia Tocci